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Utopìa y Praxis Latinoamericana

versión impresa ISSN 1315-5216

Utopìa y Praxis Latinoamericana v.12 n.37 Maracaibo jun. 2007

 

Carlos Nelson COUTINHO: Il pensiero político de Gramsci. Edizioni UNICOPLI, Milano, 2006, 170pp.

Guido LIGUORI, Italia

È importante che questo libro –a venticinque anni dalla sua prima uscita, ora rivisto e largamente riscritto appositamente per questa edizione– venga pubblicato anche in Italia. In primo luogo, perché viene da un paese e da una cultura in cui oggi la presenza di Gramsci è ancora notevole. In secondo luogo, perché si tratta di un’opera di rilievo e merita di essere letta anche nel paese che –per ovvie ragioni– resta al centro degli studi sull’autore dei Quaderni. Provo ad argomentare molto in breve entrambe queste convinzioni.

Il Brasile è oggi forse secondo solo all’Italia per quel che riguarda la considerazione che Gramsci ha avuto e ha, a livello universitario e di opinione pubblica. Anzi, se guardiamo all’oggi, si può dire che il paese sudamericano sopravanzi il nostro. Gramsci venne tradotto per la prima volta in Brasile a metà degli anni sessanta. Poco dopo ebbe inizio un certo suo uso, sia in campo politico che in campo scientifico. Per quel che atiene a quest’ultimo aspetto, il riferimento è a varie discipline, dalla filosofia politica alla pedagogia, dall’antropologia al “servizio sociale” (lo Stato sociale e i “servizi” che assicura o dovrebbe assicurare), dalla sociologia alla politologia. A livello accademico, vi sono in Brasile aree (come quella pedagogica, o quella del “servizio sociale”) in cui il pensiero gramsciano è addirittura la fonte di ispirazione più autorevole, e altre (filosofia politica, sociologia, ecc.) in cui è ancora oggi molto influente, nonostante che negli ultimi dieci-quindici anni abbia ceduto posizioni –in Brasile come nel resto del mondo– a teorie e a famiglie teoriche di matrice diversa.

Per quanto concerne il campo più propriamente politico, il fallimento dei modelli insurrezionalisti pose al centro della scena teorica e politica della sinistra latinoamericana e brasiliana i concetti gramsciani di «guerra di posizione» e di «egemonia». La lotta per le libertà democratiche prima e il ritorno della democracia in Brasile poi, negli anni ottanta, hanno veicolato il pensiero di Gramsci, ne hanno permesso la diffusione e l’affermazione sempre più larga. Gramsci è stato riconosciuto quale «il più grande teorico marxista della politica», in grado di dare fondamento a una strategia «adeguata ai bisogni del paese moderno e “occidentale” che era ormai il Brasile degli anni settanta».1 Le categorie teoriche gramsciane acquisirono allora grande diffusione nel paese, travalicando la cultura della sinistra, partecipando alla formazione di un linguaggio e di un senso comune non limitato ad essa, un humus intellettuale che oggi è in parte ridimensionato, ma tutt’altro che scomparso.

Tra il 1999 e il 2002 una nuova edizione dei Quaderni del carcere, intelligente adattamento dell’edizione critica di Valentino Gerratana per un pubblico non italiano, ha fornito un nuovo importante strumento agli studiosi. Questa edizione è stata curata da Coutinho (già presente nel gruppo di traduttori della prima edizione), con la collaborazione di Marco Aurelio Nogueira e di Luiz Sergio Henriques, i primi due filosofi della política di larga fama, il terzo italianista e traduttore finissimo tanto di narrativa che di saggistica.

Coutinho è il decano degli studiosi brasiliani di Gramsci, ma è anche studioso e traduttore di molti classici, marxisti e non, da Hegel a Rousseau a Lukács. Docente di Teoria politica all’Università Federale di Rio de Janeiro, è intellettuale políticamente impegnato: un tempo esule (in Europa e anche in Italia) per sfuggire alla dittatura militare, già esponente del partito comunista negli anni sessanta, dal quale uscì in seguito alla sconfitta dell’ala “eurocomunista” impegnata nel sostenere la berlingueriana affermazione del “valore universale della democrazia”; più tardi nel Pt di Lula, di cui fu anche “ministro degli esteri” nel primo “governo ombra”, Coutinho ha poi lasciato il “partito dei lavoratori” – come molti altri intellettuali –, critico verso i primi anni di esperienza di governo del Pt e verso una gestione considerata autoritaria del partito stesso.

L’importanza, non solo brasiliana, dell’opera di Coutinho su Gramsci è duplice. Da un lato essa risiede in ciò: egli ha saputo utilizzare alcune delle principali categorie teoriche gramsciane per interpretare la storia politica e culturale del suo paese negli ultimi decenni, più e meglio, probabilmente, di quanto abbiano saputo fare gli intellettuali di altri paesi, anche italiani. D’altra parte, sul piano politico, invece, la domanda a cui Gramsci sembrava dare risposta era la seguente: è possibile, e come, proporre un’idea di socialismo fortemente connessa con l’idea di democrazia? L’attenzione per Gramsci si sposta così da un ambito genericamente e ambiguamente culturalista –prevalente ad esempio nel mondo anglo-sassone– a un ambito più propriamente filosofico-politico. È a partire dalla dimensione política che Gramsci si è affermato definitivamente negli anni ottanta in Brasile. È a partire da qui che è stata recuperata anche la sua dimensione più propriamente teorica e filosofica.

Coutinho ovviamente è conscio delle differenze che intercorrono tra Italia e Brasile, sul piano storico, economico, sociale, culturale. Tuttavia trova il modo di usare le categorie gramsciane applicate alla storia del suo paese – in particolare la categoría di «rivoluzione passiva» – in modo ineccepibile, dimostrando così il loro essere categorie propriamente teoriche, valide cioè al di là del contesto e del tempo storico per il quale furono pensate e usate da Gramsci.2 Venendo alla monografia su Gramsci che il lettore sta per leggere, essa si segnala per diversi motivi. È un’opera rigorosa e completa, ma anche agile e rivolta a un pubblico non di soli “iniziati”. Ha l’impianto di un lavoro “introduttivo” ma contiene – insieme a una illustrazione delle tesi fondamentali della teoria política dell’autore dei Quaderni – anche interpretazioni originali.

In primo luogo, troviamo in essa una rapida ma precisa ricostruzione del Gramsci “giovane” e dei tratti salienti del suo prendere le distanze dal marxismo della Seconda Internazionale, senza ovviamente sottacere i momenti di contraddizione o le contiguità teoriche con l’idealismo. L’autore non nasconde neanche gli errori politici di Gramsci, il suo periodo “bordighista”. (Coutinho insiste in genere, qui ma anche nel Gramsci maturo, su limiti e aporie presenti nel pensiero del comunista sardo). Ma mostra chiaramente come già gli anni precarcerari siano fondamentali per tanti aspetti, non ultimo la nascita del concetto di egemonia, di cui si traccia la vicinanza ma anche l’incompiutezza rispetto alla categoria che troveremo nei Quaderni.

Nell’opera del carcere salta agli occhi come la politica sia al centro della riflessione, non solo perché Gramsci continua a pensarsi e a pensare come dirigente politico, ma anche perché per lui «tutte le sfere dell’essere sociale sono attraversate dalla política ».3 Politica come libertà, come soggettività, come “ideologia” (in senso gramsciano), come possibilità reale di cambiare le cose. Ma politica anche nel giusto equilibrio con l’«economia», un rapporto «storicamente mutevole» – scrive Coutinho –, che non è dato «una volta per sempre», poiché «il ruolo di “momento predominante” che una esercita sull’altra in seno alla totalità dell’essere sociale, dipende dalle caratteristiche concrete della formazione sociale in questione»4.

Altri momenti di grande efficacia ermeneutica troverà il lettore, ed è impossibile ricordarli qui tutti. Ad esempio l’analisi dello “Stato allargato”, della tematica della sua estinzione, intrecciata con le vicende della lotta politica del tempo al vértice del Pcus e con l’Urss degli anni ’20, che Gramsci aveva conosciuto da vicino. Costante è in questo libro il collegamento tra le categorie dei Quaderni e le vicende storico-politiche vissute dal loro autore. Ma anche, per altri versi, con la storia del pensiero politico, con filosofi come Rousseau e Hegel, oltre che, naturalmente, con Marx e Lenin. Riguardo a Rousseau, inedito –mi sembra– e di grande interesse è il rapporto che Coutinho instaura tra l’egemonia come ricerca del consenso e il contrattualismo democratico-radicale del Ginevrino. Per quel che riguarda i rapporti con la tradizione marxista, l’autore è capace sempre di far risaltare i nessi di Gramsci con gli autori marxisti – in primo luogo con Lenin – secondo un’ottica “dialettica”, di conservazione- superamento, senza cadere in nessuna delle unilateralità che tanto spesso si incontrano nella storia delle interpretación di un pensatore inserito sì in una precisa tradizione di pensiero, ma anche tanto originale, antidogmatico e creativo. Per cui non si sottolinea unilateralmente né il momento della “conservazione”, secondo cui Gramsci a lungo è stato considerato un leninista tout court, né il momento del “superamento”, secondo cui Gramsci non è affatto leninista (o marxista) e finirebbe con l’elaborare una interpretazione della società del tutto diversa. Coutinho mostra bene come Gramsci in realtà, legato per mille fili al marxismo, sappia andare avanti in modo non dogmatico, proponendo soluzioni nuove ai fenomeni sociali nuovi che gli si presentano davanti. E annota inoltre come «uno sviluppo teorico- politico che conserva e supera le posizioni originali gramsciane » sia stato e debba essere l’atteggiamento della parte che meglio ha voluto e vuole sviluppare Gramsci, che vuole usarlo per capire le contraddizioni del presente.

Si è detto che Coutinho insiste anche, e giustamente, sugli stessi limiti di Gramsci, ma non ponendosi di fronte al suo pensiero, come oggi si usa, soprattutto a livello massmediologico, con l’ottica di un giudice o di un “tribunale della storia”, bensì nell’ottica sempre della conservazione-superamento: conservazione di tutta la ricchezza ermeneutica e politica del pensiero di Gramsci, ma anche consapevolezza della necessità a volte di oltrepassarlo. Anche un autore così attuale –Coutinho mostra perché Gramsci sia oggi l’unico marxista dopo Marx a essere forse tanto attuale e diffuso– deve essere sviluppato e “tradotto”,ma non “tradito”: laddove tradire Gramsci significherebbe volervi leggere ciò che non vi è, volergli attribuire posizioni (oggi soprattutto democratico-liberali) che mai sono state le sue. Questo libro –per la serietà, il rigore e l’intima familiarità che dimostra con le pagine gramsciane– aiuta a evitare tali pericoli. Anche per ciò merita di essere letto e si segnala come un contributo fondamentale sia per tornare a leggere “Gramsci secondo Gramsci” che per cercare di svilupparne fecondamente il pensiero.

Notas

1  COUTINHO, CN (1995): “In Brasile”, in: HOBSBAWM, EJ (1995): Gramsci in Europa ein America, a cura di Antonio A. Santucci, Roma-Bari, Laterza, p. 132.

2  COUTINHO, CN (2001): “Cultura e società in Brasile”, in: Rivista di studi portoghesie brasiliani, nº 3, pp. 177-200.

Infra, p. 76.

Infra, pp. 86-87.

Rigoberto LANZ: El discurso político de la posmodernidad, FACES/UCV, Venezuela, 2006.

Jonatan ALZURU APONTE, CIPOST, Caracas

¿DIJO USTED SOCIALISMO?

Con esa interrogación se inaugura el tercer capítulo del texto, El discurso político de la posmodernidad, el último libro de Rigoberto Lanz (septiembre, 2006, FACES/UCV). La pregunta marca el ritmo, el tono y el humor del texto. No desde la masturbación teórica, sino desde una mirada crítica a propósito del acontecer en Venezuela.

Lanz, consciente que el debate teórico ni se decreta ni lo clausura nadie, toma nuevamente la palabra para ilustrar, a propósito de la interpelación, que “Ya desde el siglo XIX quedó bastante claro que la idea de Socialismo permitía manejos diversos, podía ser utilizado por corrientes enfrentadas.” (p. 68) Por lo tanto, asume el reto de graficar, como un boceto inconcluso, su mirada.

Quizás gran parte del libro es lo que el intelectual y/o el político de izquierda debe saber. En primer lugar que “El primer deber de un revolucionario es saber que la izquierda es un desastre” (p. 91) y eso fue en parte no sólo por el burocratismo sino por la “ignorancia enciclopédica” de la izquierda tradicional. En segundo lugar que el legado del socialismo soviético “es más bien una vergüenza” (p. 69).

En tercer lugar que “Hoy, la misma idea de partido está en ruinas porque no se corresponde ya con las nuevas modalidades de intermediación de demandas políticas, y mucho menos, con la sensibilidad y horizontes de otra forma de entender la participación” (p. 85).

El cuarto punto se desprende del anterior, afirma el autor. “Muy cándido sería la creencia de un socialismo del siglo XXI liderizado por algún Comité Central de estos partidos jurásicos que sobreviven todavía, basado en la ideología de algún manual desempolvado y bajo el paraguas geopolítico de estos adefesios internacionales que deberían servir más bien como vitrinas de lo que nunca debió ocurrir” (p. 77).

Lo que tienen en común las izquierdas es su hostilidad contra las derechas (p. 150), sobre todo contra las derechas histéricas como la existente en Venezuela, de allí que cada una tiene sus matices. Lanz sostiene que la izquierda, tal como él la entiende, tiene como característica esencial la sensibilidad crítica.

“El espíritu crítico es la más importante de todas las condiciones que hacen a la imagen de un temperamento de izquierda. Espíritu de contestación a lo establecido, voluntad de revuelta frente al canon, capacidad de decir no cuando el sentido común rechilla sí. Ese espíritu nos vacuna contra la ingenuidad de las consagraciones universales y abre las brechas para la intuición creadora vaya descubriendo el placer de inventar el mundo.” (p. 92) He ahí algunas de las ideas que somete a discusión el profesor Lanz. Sólo una curiosidad me queda: ¿Qué pensará Chávez y sus cagatintas de tales pensamientos?

Ángel CASADO y Juana SÁNCHEZ-GEY: María Zambrano: Filosofía y Educación. Ed. Ágora, Málaga, España.

Presentación de Gregorio GÖMEZ CAMBRES, Universidad de Málaga.

El hombre es una realidad inacabada. Ha nacido persona pero tiene que continuar realizándose y construir su personalidad. Y persona en el pensamiento de María Zambrano es transparencia, trascendencia. Ella siempre va a la raíz de los problemas. Y el problema del hombre es su realización. Una realización que al ser creadora consiste en poner en marcha la razón poética dejándose poseer por lo sagrado de la realidad y su verdad.

Lo sagrado, preocupación constante de Zambrano, objeto de su pensar, es ese fondo último de misterio que nos inunda, que es diafanidad, que es lo más creador y anida en nuestra intimidad, son nuestras entrañas. Sacar a la luz, manifestar, revelar, toda esa riqueza de nuestro corazón sólo es posible hacerlo con una palabra poética y la verdad como revelación. Si Filosofía para Zambrano es encontrarse con uno mismo, llegar al fin a poseerse, la tarea de la educación será alcanzar esa finalidad: que la diafanidad del universo sagrado-divino-humano cuando se actualice en nuestra vida haga de ella una realidad transparente.

La educación conlleva un escuchar la exigencia de lo sagrado en forma de llamada, de vocación; es la llamada de la verdad del corazón. Y lo más sagrado que en él habita por ser lo más creador es el amor. Amor que nace del espíritu de la verdad donde se actualizan como sacramento lo divino y humano en el hombre. Es el problema de El hombre y lo divino.

Lo sagrado que habita en nuestras entrañas se irá revelando en lo divino y sus formas. El Dios del amor creó la nada por amor. Desde que el poeta del cielo y de la tierra creó la nada, la soledad, el vacío de nuestro corazón, ya tiene el día su noche y el amado su amor en ausencia de la amada. La filosofía como amor a la sabiduría se torna en Zambrano en sabiduría del amor. Ella ofrece su pensamiento para que sea recogido por un alma afín. Educar es convertir la mirada y el corazón hacia la luz y así transformar el corazón de piedra en un corazón de carne. Un corazón, vida y persona transparentes.

Transparencia del amor que se manifiesta en todos los Manuscritos seleccionados religiosamente, escrupulosamente, por los profesores Juana Sánchez-Gey y Ángel Casado en este libro sobre Filosofía y Educación. En esta obra se nos enseña que el hombre en su realización quiere hacer suyo su histórico destino. Pues la vida con su sabiduría nos lanza su pregunta cuando se nos presenta en forma de enigma. La respuesta nos la ofrece la misma vida en el sentimiento de amor, en la soledad y en el abismo de la presencia en la ausencia de la verdad que me domina y me quiere. Ante las preguntas de la vida el corazón siempre ha de asistir con su presencia, el corazón nos ayudará a sostenemos.

Es la adolescencia la que guarda uno de esos secretos de la vida humana. Con ella irrumpe en el hombre el toque divino, entusiasmo, de la creatividad. A esta edad se revela el individuo con su pequeña soledad y con la fuerza del amor naciente que pondrá orden en su vida. Porque al joven se salva con amor. Amor es educar, recoger el rumor de la vida que nos habla desde el corazón del silencio. La palabra de la vida es palabra del alma. Hay personas que son el alma hecha palabra.

Palabra de la vida que se comparte en libertad, igualdad y fraternidad. Porque el pan de la vida para ser pan verdadero debe ser ganado, ofrecido, dado, recibido, consumido fraternalmente. Por ello la sociedad es amor compartido, compartir el pan y la esperanza. El lugar del hombre en esta vida es la sociedad. En la sociedad dialogan los sentidos, se armonizan. El amor crea en ellos un orden en unidad con la inteligencia y la fuerza de la realidad. Con nuestro mirar y escuchar nos adentramos en los abismos y en los acordes del alma. La delicadeza del alma, esa forma de piedad que se manifiesta en la unidad de los sentidos del oído, de la vista y del tacto en nuestro saber tratar con lo otro. Nuestra mirada en su hambre de realidad debe estar atenta a la diafanidad que le entra por los entresijos de la vida. Cada uno de nosotros guardamos en secreto esa puerta entreabierta por donde miramos y recibimos nuestro paraíso, el argumento, la fuerza que unifica nuestra vida. La atención es una herida siempre abierta que descansa, como el amor, cuando ha alcanzado la libertad porque ha encontrado un dueño.

En su realización el hombre ha de ser virtuoso. Nos educamos en la virtud cuando escuchamos a nuestra conciencia, al saber de nuestro corazón que posee nuestra razón de ser. Con el saber del corazón, saber de experiencia, lo divino de las razones de los dioses se ha introducido en nuestra intimidad. Y es nuestra conciencia quien nos revela las posibilidades innatas de nuestro propio ser. De este modo, la virtud se manifiesta en la armonía y musicalidad de aquellas personas que nos atraen porque irradian luminosidad y vida, como el sol. La virtud se enseña con la pedagogía del ejemplo. El joven ingresa en la escuela buscando el centro de su vida, deseando ser una persona centrada, orientada. Tienen las aulas su vida propia, como el corazón del alumno son un lugar vacío, de encuentro, en su claro se da la verdad de la presencia de la amistad donde se vive la mismidad del tiempo de la vida. El espacio de la vida de las aulas señala el espacio de la familia y de la sociedad, un espacio poético, lugar de toda creatividad.

Amor y temblor se aúnan en el trabajo humano. Tiembla el joven ante la realidad del examen. Temblor que es la inquietud de la vida que sólo descansará cuando llegue su fin. Pues la vida en todos sus aspectos hay que irla ganando cada día. Porque a la tarde de la vida nos examinarán en el amor. Por eso hay que cuidar el ser que uno es y que se espeja en el aula y en los libros con que nos formamos. El aula y su silencio, han de ser espejo donde se reflejen los pensamientos y lugar de encuentro de la promesa del alumno y de la esperanza del profesor, resorte de su corazón. Lugar, el aula, de la amistad, ese género de amor que nace de la comunidad de pertenecer a un mismo reino del espíritu. La amistad es la flor de la lograda mayoría de edad, de la madurez de la persona.

La persona es el guardián de la conducta humana, que se rige desde dentro y no desde fuera. Es el agua de la misericordia y la luz de la inteligencia los que han de deshacer esas piedras de resentimiento, de esclavitud que llevamos dentro. Es tarea del educador alcanzar que ese amor y esa luz circulen por su vida, por su sangre, se condensen, se fijen en el alumno. Es el fruto del sacrifico y trabajo silencioso del maestro.

Fijada la luz y el amor en la persona, esta se hace transparente y trasciende rompiendo barreras. Trascendencia de la vida del joven que se manifiesta incluso en el premio del viaje fin de estudios. Donde el viaje es un tránsito, un trascender, un salir de sí mismo. Un trascender que es inmanente, un viaje que lleva consigo el regreso, un trascender quedando retenido por la fuerza de la realidad, por el calor de aquello maternal que nos alberga.

La fuerza de la realidad nos llama con su verdad, exigencia de realidad. Hay que escuchar, estar atento a la vocación, a la llamada de la realidad. Entre todas las llamadas de la realidad la más clara es la vocación de maestro. El fenómeno de la vocación necesita un sistema de pensamiento donde apreciemos que la vocación es estructura de la realidad humana. La vocación es una llamada oída y seguida. La vocación es algo real en el sujeto humano, es una ofrenda completa del ser humano, de lo que hace y de lo que es. Educar en vocación es educar en disponibilidad, estar al servicio de su llamada que nos impulsa a realizarnos haciendo de nuestra vida mediación, servicio, disponibilidad. La vocación es esencialmente mediadora. Y es el maestro quien, sobre todos, ejerce una función mediadora de carácter social: mediación entre el individuo y la sociedad. El “más” del maestro, maestro viene de “magister”, es un más de cumplimiento, de perfección. Su donación consiste esencialmente en transmisión y si deja de transmitir se convierte en una contrafigura de su ser.

Pero el maestro es, sobre todo, mediador del ser, maestro del ser. El hombre necesita del saber del maestro para integrarse y así poder germinar, realizarse. El maestro al serlo de un hombre germinante ha de hacer descender sobre él razón, vida y verdad; también armonía y orden, que son fundamentos de la belleza, y todo ello en función del ser. Maestros, mediadores, seremos cuando sepamos sostener a un joven, a una vocación, con todo lo que lleva de promesa, en una existencia donde se integren en unidad su ser, su razón, su verdad y su vida. Con ello alcanzará una realización personal: una total ofrenda.

Los caminos de nuestra vida son conducidos por nuestra “Guía”: Andalucía, camino de luz. La luz, fuerza de la razón y fuego de nuestra tierra, de nuestros hombres y mujeres. María Zambrano, como mujer andaluza, como maestra y guía, nos despierta a la aurora de la vida en unidad con la luz del pensar. Andalucía, la cultura más vieja y la realidad más joven, se nos ofrece en continuo alborear de razón poética. A su ofrenda sólo se da cumplimiento con nuestra entrega.

Sólo me queda mostrar mi agradecimiento por el esfuerzo realizado con amor, para que sea posible la publicación de este libro sobre Filosofla y Educación en María Zambrano, a los Profesores Juana Sánchez-Gey y Ángel Casado, a la Editorial Agora y a la Fundación María Zambrano en la persona de su Director D. Juan Fernando Ortega.

Prólogo de Juan Fernando ORTEGA MUÑOZ, Universidad de Málaga.

Me cabe el honor de prologar esta obra, que es una antología de textos de María Zambrano sobre la educación, seleccionados y preparados por dos buenos conocedores de la obra y el pensamiento de la filósofa andaluza, Ángel Casado y Juana Sánchez-Gey. Era un campo del pensamiento de Zambrano que no había sido objeto de investigación hasta el momento y que, sin embargo, tiene un lugar destacado en su vida y en su obra. Hija de maestros, de educadores, ella misma ejerció la docencia y fue maestra y educadora de una generación que supo aceptar con cariño y respeto sus orientaciones y guía.

El título de la obra pone en evidencia esa vinculación casi substancial de la filosofía con la educación. Nos dice ella misma en su artículo «Filosofía y Educación: la realidad», un texto que sin duda sirvió de inspiración para el título de esta obra que presentamos: «Nadie puede negar, ni siquiera desconocer la estrecha relación que existe entre el pensamiento filosófico y la acción educativa». Para los griegos esta relación era evidente, pero ahora —nos dice la filósofa veleña— «estamos en el polo opuesto, el negativo, al polo positivo ofrecido por la filosofía griega, que era ya en sí misma educativa, formativa», porque el griego era «un filosofar que desde su raíz misma reunía las condiciones necesarias en forma superabundante para que una filosofía fuera al mismo tiempo, siguiendo su propio curso, educación».

A partir del giro copernicano que la historia del pensamiento filosófico sufre con los sofistas y especialmente con Sócrates, quien dejando de lado el estudio del “arjé”, que había sido la preocupación de los filósofos presocráticos, «baja, —como diría Cicerón— la filosofía del cielo a la tierra», desciende de los problemas sobre el origen del universo, a la tarea educativa de la juventud ateniense, a la preocupación por el hombre, a la formación del ciudadano. Vemos a Sócrates de continuo rodeado de discípulos y admiradores, en una tarea que considera mandato divino. El filósofo ateniense lo expone de forma clara y valiente ante sus jueces: «Si (...) me dijérais: Sócrates (...) te absolvemos, pero con esta condición, con la condición de que dejes esos diálogos examinatorios y ese filosofar (...) Yo os respondería: «Agradezco vuestras palabras y os estimo, atenienses, pero obedeceré al dios antes que a vosotros y, mientras tenga aliento y pueda, no cesaré de filosofar, de exhortaros y de hacer demostraciones a todo aquel de vosotros con quien tope, con mi modo de hablar acostumbrado». Platón en el libro vi de la República nos dice que SI la naturaleza filosófica (...) recibe una educación conveniente, verá acrecentada en sí misma necesariamente todo género de virtudes». Y Gregorio Nacianceno nos dirá que regir y formar a la juventud es «el arte de las artes y la ciencia de las ciencias».

«Supone la educación, el que haya de haberla, —nos dice Zambrano— que el hombre es un “ser” nacido de un modo inacabado, imperfecto, mas necesitado de ir logrando una cierta perfección y capaz desde luego de lograrlo, aunque sea con la relatividad propia de todas las cosas humanas». Y da la explicación: (<Pues que si el hombre naciese como los demás seres vivientes que con él comparten este planeta, siendo ya lo que tiene que ser sin más que ir creciendo, desarrollándose por obra y gracia de la madre naturaleza, la educación no sería ni necesaria ni posible». El hombre es el único viviente al que la vida se le da como una tarea a realizar, y por ello que se vea necesitado de construirla, de inventarla. Pero esa tarea no es ni puede ser una empresa que el individuo pueda confiar al instinto, a la naturaleza, que actúa en él independientemente de su vinculación con la sociedad, porque el ser humano está inmerso en una sobre-naturaleza que es la cultura, que no nos es dada con la vida, sino que necesariamente debemos recibir por el aprendizaje, no nos es comunicada en el lote de la vida misma, sino aprendida de la sociedad en la que estamos inmersos. El individuo que, como hemos visto, nace inacabado, necesita completarse en la sociedad. Como el instinto es la memoria de la naturaleza, la cultura es la memoria de la sociedad. Por ello que la educación sea un factor añadido, recibido a través del magisterio, de la enseñanza. La educación es, por lo tanto un factor social.

«Educar –nos dice Zambrano– será ante todo guiar al que empieza a vivir en esta marcha responsable a través del tiempo». La misma palabra “educación” tiene esa etimología de conducir, guiar, ayudar al incompleto a completarse, a alcanzar su realización, su integridad, que sólo se consuma si añade a las dovelas que hereda de la naturaleza, aquellas que la cultura le suministra para completar el arco. Aquí está la clave que cierra esa arquitectura en lo que es más humano, más genuinamente humano, aquello que el hombre añade a la naturaleza que se nos muestra como dos muñones abiertos sobre las columnas de la tierra que ha de cerrarse con esa clave del arco que es justamente la cultura. El hombre natural, pura naturaleza, dirá Marx en sus escritos juveniles, es un sueño vacío, inexistente. El hombre, tal como lo conocemos, es por el contrario «el resultado de la actividad de toda una serie de generaciones, cada una de las cuales se encarama sobre los hombros de la anterior».

Pero, como nos advierte Zambrano, de nada sirve la tarea del educador si el educando no participa en esa tarea educadora. «Pues que en este sacramento de la educación sucede lo mismo que en el del matrimonio: que son los contrayentes quienes en verdad se lo administran, conducidos, testificados, bendecidos, mas ellos. No hay educación posible, pues, si sólo existe el educador, es decir: si el propio educador no es el propio educando».

El educador ejerce una función mediática entre la sociedad y el individuo, entre la cultura y la persona, es guía. «El maestro –nos dice la filósofa veleña– es mediador sin duda alguna entre el saber y la ignorancia, entre la luz de la razón y la confusión en que inicialmente suele estar todo hombre». Ella nos define al hombre al nacer como un ser arrojado al mundo, a la intemperie, que necesita guarecerse, arroparse con unas estructuras, que le sirven de arrullo, y le dan seguridad y confianza, una carta de viaje que le enseña a manejar el educador. En esta tarea de guiar el educador “está solo, solo ante su inmensa responsabilidad”, nos dice Zambrano. Pero el que guía lo hace hacia una meta de plenitud, hacia un echaton, que le viene dado por la filosofía. «Este género de caminar, de ir hacia algo, –nos dice Zambrano– que guía y que está más allá, a través de un terreno en el que no hay caminos en principio, se llama propiamente trascender. Trascender que en un primer sentido es atravesar, traspasar: obstáculos, fronteras (...). Trascender no es propio más que de un sujeto y (si) se dice de algo que no lo es, es porque viene considerado por extensión o metafóricamente, como tal». Ella compara la trascendencia al perfume, al aroma de la flor, que se expande sin dejar de estar en el cáliz de la misma. La filósofa veleña nos dice: «En esta situación habría que ser más que nunca la filosofía la que le orientara, diera certidumbre, sostén del educador».

Justamente porque la educación es una tarea compartida entre el educador y el educando, es imprescindible el diálogo. «Ignorancia y saber circulan y se despiertan igualmente por parte del maestro y alumno, que sólo entonces comienza a ser discípulo. Nace el diálogo». La afirmación de María Zambrano nos resulta sorprendente en lo que se refiere a esa circulación de ignorancia y sabiduría, lo que nos recuerda a Sócrates cuando afirma «Pues lo mismo que a las parteras, me sucede lo siguiente: yo soy estéril de sabiduría, y lo que me han reprochado muchos, que interrogo a los demás pero que después yo no respondo nada sobre nada, por falta de sabiduría, en verdad puede reprochárseme. Y la causa es la siguiente: que Dios me constriñe a obrar como obstétrico, pero me yeta dar a luz. Y yo, pues, no soy sabio, ni puedo ostentar ningún descubrimiento mío, engendrado por mi alma. Pero los que me frecuentan. -, obtienen un provecho admirablemente grande, tal como les parece a ellos mismos y a los demás y, sin embargo, es evidente que nada han aprendido nunca de mí, sino que ellos han encontrado en mismos, muchas y bellas cosas que ya poseían».

En este caminar hacia sí mismo, en este desentrañar el misterio de mi ser y la vocación que en él anida el educador es el matrono que nos dirá ci cómo y el cuándo el educando ha de realizar los esfuerzos del alumbramiento. María Zambrano nos dice que el educador no debe pretender conseguir una copia de sí mismo en el educando, lo cual sería traicionar la tarea misma de educador, sino hacer que aflore desde la propia entraña del educando el hombre nuevo, la plena realización de su ser. No se trata de conseguir un calco del educador, sino de hacer que el educando se encuentre a sí mismo, descubra su ser y se realice y en esa tarea compartida educador y educando caminan desde la ignorancia al conocimiento, porque el gran drama al respecto es que el hombre es un “ser encubierto” que necesita de continuo revelarse. «Existe –dice Zambrano– un trabajo aún más inexorable que el de “ganarse el pan”. Es el trabajo de ganarse el ser, a través de la vida, de la Historia».

No quiero terminar este prólogo sin aludir a la magnífica introducción con que se nos presentan estos artículos de Zambrano, obra de Ángel Casado y Juana Sánchez-Gey, ellos mismos magníficos educadores y maestros en una época como la nuestra tan necesitada de magisterio.

Aníbal RODRÍGUEZ S: Poética de la Interpretación. Universidad de Los Andes

Prólogo José Francisco ZÚÑIGA GARCÍA, Ogíjares, Granada.

¿Quién acoge?, ¿el que prologa o el prologado? En principio, as cosas ocurren así: la palabra primera acoge a la palabra que viene después, prepara con su carácter inicial la entrada de lo que tiene a continuación y le da, por así decir, visibilidad. Así que el prólogo debe cumplir el sentido más propio de toda verdadera hospitalidad: hacer que el otro llegue a dar de sí lo mejor que pueda. Pero en realidad, todo prólogo escrito para un libro ajeno es siempre palabra extraña acogida por la palabra que invita. Y, así, ésta que empieza aquí es, ante todo, una palabra –en este caso también extranjera– de agradecimiento por la acogida. Además, su tema es el asunto principal del libro que prologa, pues es –pretende ser–, una palabra previa que prepare a la pregunta que sostiene al libro que tenemos entre manos: ¿quién acoge y quién es acogido? ¿Quién soy yo y quién eres tú? A veces somos anfitriones, a veces somos huéspedes.

El mejor hallazgo de Aníbal Rodríguez Silva es, sin duda, interpretar a Hans-Georg Gadamer como un pensador hospitalario que toma nuestra cultura, nuestro lenguaje y nuestro ser como una casa. ¿Somos hospitalarios? ¿Podemos ser nosotros mismos sin ser hospitalarios? Si respondemos negativamente a esta última cuestión, entonces hay que sacar la consecuencia que extrae el autor al aproximar la hermenéutica al universo levinasiano, a saber: pensar que el que viene de lejos, el extranjero, es el que nos acoge en nuestra casa, de manera que lo que encontramos en este libro es una lectura muy sugerente de la dialéctica hegeliana de la formación, incorporada al pensamiento hermenéutico, que implica un necesario momento de extrañamiento o salida de sí para saber quién es uno. Encontrar este pensamiento escondido en la tessera hospitalis (tablilla de la hospitalidad) de la Antigüedad, constituye un gran acierto del presente volumen, que toma entonces, consecuentemente, el conjunto de la hermenéutica como arte tener razón.

El núcleo es, sin duda, la hospitalidad, pero a ella se le unen dos cuestiones no menos importantes, el papel central que adoptan Romanticismo y el mito para abordar el asunto (dic Sache) de fondo a saber: el legado de la metafísica, el legado de la filosofía y el pensamiento occidentales. En efecto, Aníbal Rodríguez Silva se propone reconstruir la teoría de la interpretación de Gadamer siguiendo esos hilos conductores para mostrar que su fuerza y su radican en pensar el legado de la metafísica como verdadera experiencia es decir, como un más allá de la ciencia, de manera que la experiencia de la tradición metafísica occidental sea administrada por el arte.

Por consiguiente, el asunto de la hospitalidad también está planteado en el ámbito de la teoría: ¿somos nosotros quienes acogemos a la tradición, o es ella la que nos acoge a nosotros? Respuesta de Gadamer: la interpretación de la tradición es ella misma tradición. Así que el intérprete, que parece ser el que acoge, es en realidad acogido por la tradición. Ésta es la apuesta fuerte de la hermenéutica, es, por así decir, su acto de fe ante el vacío que siempre hay en toda situación hospitalaria, tanto más en la presente, que es una experiencia de fin.

Las preguntas, hoy, son ¿Cuál es la experiencia de la tradición occidental? ¿Qué hacemos con ella? ¿Cómo la administramos? ¿Hay que destruirla o hay que conservarla? Evidentemente, para Gadamer, la experiencia de fin es una experiencia de inicio, de vuelta romántica al origen mítico. Hay experiencia de fin, de final: la ciencia o el logos apofántico ya no son los administradores de la tradición occidental. Desde Aristóteles, durante mucho tiempo, lo fueron, pero ya no lo son más; y así el fin abre al inicio, a la metafísica en origen, donde los conceptos estaban ligados al habla y la verdad al diálogo. En una conclusión que Aníbal Rodríguez Silva no extrae, pero que está implícita en su modo de argumentar, la experiencia hermenéutica, o experiencia del intérprete, que debería se una experiencia científica o de conocimiento, se convierte en una experiencia artística: la palabra del que acoge descubre que la palabra no es suya, descubre que él no acoge, sino que más bien es acogido. El monólogo de la ciencia deja de ser el administrador de la tradición metafísica occidental para ceder el paso al verdadero anfitrión: el lenguaje como diálogo, la universalidad de la lingüisticidad como espacio común al intérprete y a lo interpretado. El autor del presente libro lo sabe bien, pues es poeta e intérprete a la vez.

Este es, pues, el lugar en que convergen las líneas fundamentales de su investigación: por un lado, la hermenéutica hospitalaria de Gadamer que, reelaborando el concepto de formación, logra un espacio para la convivencia intercultural y, por otro lado, el modo en algunas tesis románticas de Gadamer se convierten en argumentos hermenéuticos, en especial el arte como forma de acceso a la verdad y el mito como modo de la verdad más allá o más acá de la razón.

Aníbal Rodríguez Silva se nos muestra como un gadameriano convencido de que, ante la evidencia de la imposibilidad de completar ninguna experiencia de sentido, sostiene con su maestro que el fragmento habla de la totalidad: la hermenéutica sería una búsqueda del anfitrión y un encuentro con él, y un obsequiar, el modo en que el huésped da las gracias: dejando algún regalo. Este libro se puede leer así: como un intento de pensar la hospitalidad, de hacer familiar lo extraño, de estar abierto a el otro tenga razón.

Quien tenga dudas, debe plantearlas, y buscar que el libro se las responda: para saber quién es uno, hay que extrañarse; para poder extrañarse, alguien le tiene que acoger a uno. Bien, ¿pero hasta donde está uno dispuesto a extrañarse?; ¿hasta dónde puede uno extrañarse? Por otro lado: si la mayor hospitalidad que cabe, como decíamos al principio, es que el otro dé de sí lo mejor que pueda. ¿Ese es todo el acogimiento posible?; ¿es esa la mayor posible? ¿Permanecernos siempre extranjeros? ¿Uno sigue siendo uno y el otro tiene que permanecer otro? ¿Quién soy yo y quién eres tú?

Ada C MACHADO DA SILVEIRA: O Espírito da Cavalaria e suas representaçoes midiáticas. UNIJUI, Rio Grande do Sul, Brasil.

Jacques GUYOT, Université d’Angers, France

O título da obra de Ada Cristina Machado da Silveira “L’esprit de la chevalerie et ses représentatíons médiatíques, consagrado a identidade gaúcha no sul do Brasil não vem a supreender-nos, e por várias razões. Certarnente podemos encontrar e descobrir que não é da Argentina a exciusividade do personagem emblemático, destemido e livre “como el pájaro del cielo”, tal qual o célebre José Hernández em seu poema Martin Fierro. Em sua paixao pelos grandes espaços, o gaúho atravessa igualmente as planícies úmidas do Uruguai e do Rio Grande do Sul. Há, sobretudo, uma questao de cavalaria, com tudo o que esta noção é capaz de evocar histórica e simbolicamente. Nós podemos pensar que essa referncia evidencia um anacronismo, uma metáfora fácil, quase um abuso de linguagem. Em efeito, o ideal da cavalaria mescla sabiamente o comportamento guerreiro, os côdigos de honra, os jogos galantes, as canções de gesta e de jogral que foram transportas pelos trovadores e menestréis medievais antes de produzir a sublime literatura épica, na qual o romance artúrico se constitui, sem dúvida, numa preciosidade. Deixando de lado a herança literária, o mundo dos cavaleiros pertence a uma época nunca desaparecida. Sendo assim, o espírito da cavalaria marcou duradouramente esses homens, fascinados pelo esoterismo dos ritos iniciáticos e, pricipalmente, pela ánsia do absoluto, vista como aventura espiritual ou metafisica. Por certo o ideal cavalheiresco, a construção social mediatizada pela canção, a poesia e a tradição arturiana vém sendo regularmente traídas pela realidade das conquistas guerreiras, já atestado em 1204 com o saque de Constantinopla pelos Cruzados. E é desta maneira que, com o passar dos séculos, a procura do absoluto veio ganhando uma característica mais profana. Quando, no século XVII, D. Quixote entendeu renovar a tradição extinta da cavalaria errante, ele descobriu, no transcorrer de suas peregrinações com Sancho Pança, a solidâo e, como um herói romãntico moderno, sua humanidade crescia â medida que o mundo que ele percorria se desencantava.

Assim, tomando-se em consideração o rol dos valores constitutivos da cavalaria, a analogia com os gaúchos começa a fazer sentido. O destino individual, as figuras arquetípicas (notadamente o homem fazendo corpo com seu cavalo), a ligacão com o tempo e o espaço, a questão identitária, a oscilação permanente entre os laços fraternidade de sangue e o gosto pela confrontação viril são os elementos que justificam que Ada C Machado da Silveira venha a estudar, através da televisão e das tiras cômicas, os processos discursivos que contribuem para produzir o mito moderno do gaúcho.

E, justamente, o que vem a ser interessante na sua pesquisa é a atualização do mito nas mídias, notadamente através dos empréstimos do ibérico espírito da cavalaria do Velho Mundo em sua transposição para as representações da identídade gaúcha no sul do Brasil. Ao fazer sua dcmonstração, Ada C. Machado da Silveira passa ern revista quatorze anos de Galpão Crioullo, programa difundido pela Rede Brasil Sul de comunicacões, e nove anos das tiras cômicas O Analista de Bagé, publicadas pela revista Playboy. Em ambos os casos, as produções midiátícas difundem e reforçam, com maior on menor fortuna, os elementos estereotipados ligados à cultura gaúcha: comportarnento, linguagem, traços de caráter, vestimentas, etc. Assim, os grandes meios de comunicação se inscrevem naquilo que chamamos de indústrias culturais. Nesse sentido, as representações propõem necessariamente um reflexo artificial da realidade posto que, in fine, elas devem igualmenle satisfazer ao desejo de consumo: aqui como lá, os anunciantes de publicidade estão muito atentos ao pitoresco ou ás etnicidades, para retomar um termo caro ao multiculturalismo. O gaúcho faz vender no Brasil como o bretão na França ou o escocês na Grã-Bretanha.

A atualização do mito é interessante no que ela vem a sublinhar nas novas questoes. Eu vejo três temáticas que cristalizarn esse processo e que são objeto de um estudo aprofundado nesta obra. Primeiramente, falar do espírito da cavalaria a propósito dos gaúchos do sul do Brasil é evocar, forçosamente, um aspecto do conflito entre Modernidade e pós-Modernidade: a identidade híbrida gaúcha seria un compromisso frágil e sutil entre a adesão aos valores tradicionais de uma ‘comunidade cavalheiresca” idealizada e a afirinaçao de uma individualidade própria, entre o orgulho de pertença a uma elite proprietária enraizada nos tempos míticos e a reivindicaçao de uma liberdade sem entraves; entre um modo de vida pertencente ao Velho Mundo e as inacreditáveis prornessas contidas na imensidao de territórios aparentemente virgens. É, em suma, o dilema ao qual deve o homem contemporâneo fazer frente depois do nascimento do individualismo moderno e a ruptura da pós-Modernidade, conceito que Jean-François Lyotard definiu como o fim das metanarratívas criadoras de laços sociais. Na realidade, é evidente que as coisas são mais complexas e o retorno do espírito da cavalaria entre os gaúchos mostra que certas “histoires” nunca desaparecem completamente, graças precisamente à extrema imaginação dos homens e seu prazer de jogar. No caso brasileiro a aventura pessoal, portanto, nao está desconectada da epopéia coletiva. Ou melhor, o mito gaúcho aparece como um forma de imperialismo, por meio do qual se registra a ocorrência da ideologia de fronteira com suas imagens masculinas, o primado da iniciativa e do discurso nacionalista no Brasil; a este propósito, o mito se edifica sobre uma dupla negação: para a construção da nação, a consolidação do território se opera em detrimento dos indígenas e dos escravos africanos. O contexto brasileiro nao pode ser referido sem se reportar conquista do oeste norteamericano. O gaúcho também é a figura simbólica desta radicalidade política.

Ato seguido, o desenvolvimento das mídias contemporáneas vem acelerando consideravelmente a difusão de modelos culturais tanto quanto, de outra forma, sua hibridação. O Brasil ocupa um espaço que apresenta opções na indústria audiovisual, com a existéncia de grandes grupos multimédia. O cenário midiático se estabelece como um observatório ideal para o estudo da realidade de representação dos gaúchos. A emissão televisiva de Galpão Crioullo é, neste sentido, muito sintomática ao ilustrar a capacidade da televisão de utilizar as técnicas narrativas próximas das canções de gesta medievais. Graças à análise intertextual, Ada C. Machado da Silveira mostra a que ponto sua emisão é herdeira da joglaresca e dos torneios de cavalaria. Nisso não se pode deixar de referir as formas culturais da televisão descritas por Raymond Williams, um dos fundadores dos culturals studies britânicos. En um outro nivel, a produçao televisiva se constitui num elemento de forte identificação na cultura gaúcha: o vínculo identitário assim forjado é passível de conseqüências sobre a maneira de pensar e construir o Estado-nação.

Quanto ao Analista de Bagé, as tiras cômicas reproduzidas numa revista erótica destinada ao “homem moderno”, a autora propõe uma outra leitura da identidade gaúcha, que é excepcionalmente descifrada por ela. De fato, todo o imaginário masculino é posto em questão, de forma irônica e crítica. O gaúcho machista se encontra desnudado, revelando-se por sua própria dificuldade de assumir sua identidade de homem num mundo onde a democratização da sociedade, a evolução dos meios, a igualdade dos sexos, além da generalizaçao do modo de vida urbano regulam, inexoravelmente, os códigos de cavalaria que se encontravam esquecidos. Em síntese, os heróis se banalizam e caem no anonimato.

Assim, o mito joga um papel fundamental na questão identitária. No momento em que as minorias do mundo inteiro apresentam suas reivindicaçoes culturais de forma pública e pretendem incrementar o debate social, ninguém pode negligenciar seos processos de construição. De uma parte, porque cada um sabe que o pior que pode suceder a un grupo social é sua invisibilidade nas mídias: a afirmação de sua existencia pasa pela mediatização de um combate efetivo (como em Chiapas), ou ainda por urna dinãmica económica que permite legitimar os valores culturais (uma língua, as maneiras de viver, uma organização social). De outra parte, porque a cultura se constitui atualmente numa maneira muito política de fazer ouvir sua voz, sua diferença, sua singularidade num contexto de internacionalização da comunicação, considerada como um fator de normalização dos conteúdos. Todo o problema reside no uso que uns e outros fazem da imagem identitária. Como foi sublinhado antes, as cadeias privadas e os publicitários se interessam bastante pela diversidade cultural, mas, ao fazê-lo de uma perspectiva consumista, grande vem a ser o risco de disseminar uma folclorização das identidades culturais. Ademais, Galpao Crioulo não está isento desses reveses. O animador ali aparece obrigatoriamente vestido como um gaúcho típico (botas, bombacha e lenço ao peito). Quanto ao Analista de Bagé, ele se inscreve indubitavelmente no inconsciente gaúcho da pós-Modernidade. Ao final, a imagem midiática de uma identidade particular revela o estatuto e o Estado de reconhecimento de uma dada cultura. Neste ponto, Ada C. Machado da Silveira constata a que ponto os três tipos de identidade imaginados por Manuel Castells co-existem e se debatem em dois níveis diversos nas produções midiáticas sobre os gaúchos. Isso significa, sem sombra de dúvida, que os gaúchos do Rio Grande do Sul ainda não tiveram êxito em superar o folclorismo e que o caminho para a identidade legitimatória vem a ser longo.

A grande qualidade do trabalho de Ada C Machado da Silveira consiste em apresentar, através do exemplo particular dos gaúchos, aqueles elementos de reflexão mais úteis para a formação da opinião junto aos sistemas políticos e culturais vinculados à representação midiática das identidades.

Santiago CASTELLÀ: La protección internacional de las minorías. Silva Editorial, Tarragona, España.

Prólogo de Lluís BADIA CHANCHO, Presidente del Puerto de Tarragona.

Cuando hablamos de los derechos de la persona lo hacemos entendiendo QUe son aquellos que no provienen de una relación jurídica concreta, sino que se trata de unos derechos que posee el ser humano por el simple hecho de serlo, tratándose pues de unos derechos inalienables e imprescriptibles sin estar sometidos al arbitrio de un poder establecido.

La historia siempre se ha escrito desde la privilegiada posición del vencedor y difícilmente se habla de la situación del vencido o del débil que requiere protección y respeto. A lo largo de la historia de la humanidad henos conocido la creación y desaparición de países, naciones, e imperios, algunos atropellados por la intransigencia y la intolerancia, otros engullidos por su falta de respeto y su incapacidad para perpetuarse.

El sentido de la posesión, de la pertenencia, de la territorialidad, de la supremacía, de la religión única, ha sido siempre motivo de disensiones, colisiones y enfrentamientos que han ocasionado genocidios de magnitudes considerables. El hombre, tradicionalmente, siempre ha mantenido la idea de imponerse a cualquier otro sentido de identidad o criterio que haya sido manifestado en contra de sus creencias o convicciones.

La capacidad integradora de la persona es de una relatividad preocupante, normalmente siempre ha considerado más importante conquistar, dominar, incorporar, imponer sus ideas y su cultura, antes que, proteger, integrar, aglutinar, tolerar, o respetar.

A lo largo de muchos siglos de historia encontramos pocos ejemplos de protección, tolerancia y respeto. Quizás podríamos decir que los primeros indicios los encontramos a finales del siglo XVIII, por un lado la Francia Revolucionaria con su Declaración de los Derechos del Hombre y del Ciudadano; por el otro, los Estados Unidos de América, promulgando su Constitución o Carta Magna. En ambos casos se trata de acabar con el Antiguo Régimen y entrar en la Era Contemporánea con unos nuevos planteamientos.

El siglo XIX es una época de turbulencias y de cambios significativos, el Congreso de Viena, los diferentes procesos revolucionarios, las situaciones de unificación nacionalistas, los imperialismos, y los diferentes movimientos sociales que se suceden sin solución de continuidad. Todo produce cambios de escenarios trascendentes que requieren nuevos planteamientos, cambios tan importantes como inestables que crearán un caldo de cultivo para que en el siglo XX estallen las guerras mundiales más importantes que han asolado el mundo. En este mismo siglo XIX, la Sociedad de Naciones impulsa los primeros sistemas de protección a las minorías.

En el siglo XX, los períodos de entreguerras y finalmente el nuevo orden existente tras la caída del muro de Berlín y de la Unión Soviética, han propiciado importantes avances en cuanto a la protección de las minorías étnicas, lingüísticas y nacionales. Unas medidas ya recogidas en la Carta de las Naciones Unidas y en la Declaración Universal sobre los Derechos Humanos, y centradas, fundamentalmente, en un cambio sustancial en el pensamiento sobre el respeto y la tolerancia y en un claro intento de universalizar la defensa de los derechos humanos.

Espero que este siglo XXI que nos toca vivir sea el de la proclamación definitiva de estos valores que han de ser verdaderos atributos que originen acciones concretas en el sentido de tutelar una convivencia pacífica y un alto grado de aceptación y respeto, entre culturas, religiones, y nacionalidades. A pesar de ello, la preocupante situación actual que se da en Afganistán, Palestina, y en otros países del mundo, no parece abocar hacia esa situación de normalización a que me refiero.

Así pues, este es el gran reto que espera a los gobiernos de las naciones, que han de establecer leyes que regulen estos procesos e implementen programas y acciones concretas para llevarlos a cabo.

Presentación de Antoni PIGRAU SOLÉ, Universitat Rovira i Virgili, Tarragona.

La cuestión de la protección internacional de las minorías nacionales o etnias, religiosas y lingüísticas es un tema clásico del Derecho Internacional Público, y que en gran medida ha estado ligado a importantes transformaciones sufridas das por la sociedad internacional que han determinado cambios en su estructura jurídica. Por eso, no es extraño que con el proceso de institucionalización de la sociedad internacional, en el período de entreguerras, con la Sociedad de Naciones, la protección internacional de las minorías se articulase de forma tan completa y compleja. Posteriormente, el proceso de humanización del Derecho internacional, por medio del nacimiento y la consolidación de la protección internacional de los derechos humanos, supondrá un nuevo impulso para la protección de las minorías, a pesar de los iniciales silencios y abandonos debidos a una concepción puramente individualista de los derechos humanos que intentaba reducir la protección a las minorías a la mera prohibición de la discriminación. Sin embargo, el artículo 27 del Pacto internacional de derechos civiles y políticos de 1966, a pesar de sus déficits y limitaciones propios del contexto político en que se generó, acabará desarrollando todo su potencial, y servirá como punto de partida para que, tras el fin de la denominada Guerra Fría, la General de las Naciones Unidas pueda adoptar la Resolución 47-135 del 18 de diciembre de 1992 que contiene la Declaración sobre los derechos de las personas pertenecientes a minorías nacionales o étnicas, religiosas y lingüísticas.

El repaso de esta evolución, complementado con las aportaciones específicas del ámbito regional europeo, configuran la línea argumental de este trabajo del profesor Santiago Castellà Surribas. A la actualidad y oportunidad del tema, así como al adecuado y completo tratamiento que recibe, debe añadirse la importancia que tiene en la organización y configuración de comunidades políticas, así como su trascendencia para el Derecho internacional contemporáneo en tanto que catalizador de los principales debates que se producen en esta disciplina, que hacen que este estudio sea de gran interés, no tan sólo para los especialistas en Derecho internacional, sino para un público más amplio de personas que desea conocer y comprender uno de los temas clave de nuestro mundo.