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Utopìa y Praxis Latinoamericana

versión impresa ISSN 1315-5216

Utopìa y Praxis Latinoamericana v.12 n.37 Maracaibo jun. 2007

 

Partito, attualità e universalità di Gramsci

Party, Actuality and Universality in Gramsci

Carlos Nelson COUTINHO

Universidad Federal de Rio de Janeiro, Brasil

RESUMEN 

El pensamiento político de Antonio Gramsci no ha perdido pertinencia y validez en su interpretación y crítica del Estado moderno capitalista. Son varios sus aportes teóricos y prácticos, pero interesa destacar en este trabajo su interesante concepción del partido político como un “moderno Príncipe”, como un “intelectual” grupal, social y “colectivo”, que está al servicio de la construcción de una conciencia social liberadora de la voluntad popular. También, lo que para él representaba el “socialismo” como proyecto de una sociedad regulada que se construye progresivamente entre todos los ciudadanos y la “democracia radical”, que la entiende como una acción ético-política que genera una nueva hegemonía social (de lo público sobre lo privado) más consensual y menos coercitiva.

Palabras clave: Gramsci, partido, democracia, socialismo.

ABSTRACT

The political thought of Antonio Gramsci has not lost relevance and validity in its interpretation and criticism of the modern capitalist State. His theoretical and practical contributions are many, but this work intends to highlight his interesting concept of the political party as a “modern Prince,” as a group, social and collective “intellectual” at the service of constructing a liberating social conscience of popular will. This study also presents what “socialism” represented for Gramsci, the project of a regulated society that is built progressively among all its citizens, and “radical democracy,” which he understands as an ethical-political action that generates a new social hegemony (of the public over the private) that is more consensual and less coercive.

Key words: Gramsci, party, democracy, socialism.

Recibido: 24-02-2007  ·  Aceptado: 18-05-2007 

IL PARTITO COME “INTELLETTUALE COLLETTIVO” 

La teoria del partito politico della classe operaia fu uno dei punti essenziali dell’apprendistato di Gramsci nel periodo precedente al carcere – occupa ugualmente una posizione di rilievo nei Quaderni. Gramsci intendeva dedicargli uno studio specifico che – ispirandosi al Principe di Machiavelli – avrebbe dovuto delineare le caratteristiche distintive del partito rivoluzionario moderno, del partito comunista, che Gramsci chiama «il moderno principe». La prima novità, rispetto alla ricerca di Machiavelli, è che il nuovo “principe” – ossia l’agente della volontà collettiva trasformatrice – non può più essere incarnato da un individuo. Dice Gramsci: «Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo, un elemento di società complesso [...] Questo organismo è già dato dallo svipluppo storico ed è il partito politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali»1. Gramsci dunque non deve “inventare” questo organismo, ma lo trova già dato tra gli elementi che formano la moderna società civile.

Il rapporto di dipendenza tra le formulazioni gramsciane del “moderno Principe” e la teoria del partito di Lenin è abbastanza evidente. È forse uno dei punti di teoria politica dove, nonostante le importanti differenze di accento, è meno marcata la capacità innovatrice di Gramsci rispetto all’eredità di Lenin2. Il primo punto di continuità tra Gramsci e Lenin sta nella stessa funzione che entrambi attribuiscono al partito nel suo rapporto con la classe. Ogni lettore del Che fare? ricorda gli elementi fondamentali, universali, non specificamente “russi”, della concezione leniniana del partito. Tra tali elementi di portata universale risalta la comprensione da parte di Lenin del fatto che il compito essenziale del partito operaio, del partito della rivoluzione socialista, è quello di contribuire al superamento di una coscienza puramente tradunionistica nella classe operaia; ciò implica che spetta al partito fornire gli elementi teorici e organizzativi affinché questa coscienza possa elevarsi al livello della coscienza di classe, cioè al livello della totalità, della comprensione non di una conflittualità immediata tra padroni e operai nella lotta per il salario (una lotta che non mette in discussione lo stesso rapporto capitalistico, il lavoro salariato), bensì dei rapporti politici globali della classe operaia con le altre classi della società, siano esse antagoniste, alleate o potenzialmente alleate. Situandosi in questo livello, grazie alla mediazione del partito, la classe operaia può affrontare direttamente la questione dello Stato, cioè la questione del potere3.

Traducendo nel linguaggio peculiare di Gramsci, il compito del «moderno Principe» consisterebbe nel superare interamente i residui corporativi (i momenti «egoistico-passionali») della classe operaia e contribuire così alla sua elevazione al livello etico-politico, alla formazione di una volontà collettiva nazionale popolare; ossia, a un grado di coscienza capace di permettere un’iniziativa politica che inglobi la totalità degli strati sociali di una nazione, capace quindi di incidere sull’universalità differenziata dell’insieme dei rapporti sociali. Il partito appare così come un’oggettivazione fondamentale di quello che Gramsci chiama «momento catartico»; non è casuale, pertanto, che egli affermi esplicitamente che, «nei partiti la necessità è già diventata libertà»4. Il partito, pertanto, non è un organismo corporativo – «un commerciante non entra a far parte di un partito político per fare del commercio, né un industriale per produrre di più e a costi diminuiti, né un contadino per apprendere nuovi metodi di coltivare la terra»5 –, bensì un organismo catartico, etico-politico, universalizzante: «Nel partito politico gli elementi di un gruppo sociale economico superano questo momento del loro sviluppo storico [corporativo, egoistico-passionale] e diventano agenti di attività generali, di carattere nazionale e internazionale»6. E se il partito, in quanto organismo collettivo, rappresenta l’elevazione di una parte della classe, della sua avanguardia, dalla fase economico-corporativa alla fase eticopolitica, dalla particolarità all’universalità, dalla necessità alla libertà, è naturale che una stessa elevazione – sebbene a diversi livelli – si verifichi anche in ognuno dei suoi membri individuali. In altre parole: non solo il partito come tale è un’oggettivazione del «momento catartico», una sua fissazione strutturale, ma ogni singolo – al momento dell’ingresso al partito – realiza totalmente o parzialmente questo “momento”, nella misura in cui agisce in un modo più libero e più cosciente nella società dove vive.

Di conseguenza, così come in Lenin l’esperienza immediata del conflitto tra padroni e operai, essendo il risultato di una prassi particolaristica, porta solo a una coscienza limitata, “tradunionistica”, anche in Gramsci il fermarsi al momento economico- corporativo mantiene la coscienza a un livello di passività, di impotenza oggettiva rispetto alla necessità sociale. La manifestazione e perfino il conflitto tra interessi corporativi porta, in ultima istanza, alla riproduzione della formazione economicosociale esistente. Solo il passaggio al momento “etico-politico” – che in Lenin appare come una “coscienza che viene dall’esterno” (dall’esterno della prassi economica, non dall’esterno dell’ampia prassi totalizzante che coinvolge l’insieme della società) – permette al proletariato di superare le sue divisioni corporative e di divenire classe nazionale e internazionale, dirigente, egemonica7. Per Gramsci, la possibilità di diventare classe egemonica si incarna nella capacità di elaborare in modo omogeneo e sistematico una volontà collettiva nazionale-popolare; e solo quando si forma questa volontà collettiva si può costruire un nuovo “blocco sociale” rivoluzionario, nel cui seno la classe operaia (libera da corporativismi!) assuma il ruolo di classe dirigente. La costruzione omogenea di questa volontà collettiva è innanzitutto opera, secondo Gramsci, del partito politico: appare così con chiarezza il ruolo di sintesi, di mediazione, che il partito assume, non solo nei confronti dei vari organismi particolari della classe operaia (sindacati, ecc.), ma anche nei riguardi dei vari movimenti delle altre classi subalterne. Questi organismi e movimenti – grazie alla mediazione del partito – divengono le parti del corpo unitario del nuovo “blocco storico”8.

Nonostante Gramsci si avvalga in alcuni momenti della terminologia di Georges Sorel, non si deve affatto supporre che egli concepisca la formazione di questa volontà collettiva in modo volontaristico, irrazionalistico, cioè come semplice costruzione di una “idea-forza” o di un “mito” che muova il soggetto rivoluzionario, ma senza rapporto con la realtà oggettiva concreta (come è proprio il caso del mito dello “sciopero generale” in Sorel)9. Questa volontà collettiva è così concepita da Gramsci: «Per sfuggire al solipsismo e nello stesso tempo alle concezioni meccanicistiche che sono implicite nella concezione del pensiero come attività ricettiva e ordinatrice, occorre porre la quistione “storicisticamente” e nello stesso tempo porre a base della filosofia la “volontà” (in ultima analisi l’attività pratica o politica), ma una volontà razionale, non arbitraria, che si realiza in quanto corrisponde a necessità obbiettive storiche, cioè in quanto è la stessa storia universale nel momento della sua attuazione progressiva; se questa volontà è rappresentata inicialmente da un singolo individuo, la sua razionalità è documentata da ciò che essa viene accolta dal gran numero, e accolta permanentemente, cioè diventa una cultura, un “buon senso”, una concezione del mondo con una etica conforme alla sua struttura»10. E dato che una volontà collettiva può solo essere suscitata e sviluppata quando esistono condizioni oggettive adeguate, il partito deve realizzare «un’analisi storica (economica) della struttura sociale del paese dato»,11 come condizione per elaborare una linea politica capace di incidere effettivamente sullarealtà.

È in questo senso che devono essere lette le importanti osservazioni di Gramsci su Spontaneità e direzione cosciente12. Inesse, Gramsci prende posizione contro il feticismo della spontaneità, criticando coloro che rifiutano o minimizzano la lotta quotidiana e non si impegnano per dare ai movimenti spontanei una direzione cosciente, ossia una sintesi politico-intellettuale che superi gli elementi di corporativismo e trasformi tali movimenti in qualcosa di omogeneo, universalizzante, capace di un’azione efficace e duratura. Ma egli non crede neppure che la volontà collettiva possa essere suscitata solo “dall’alto”, da un atto arbitrario del partito, senza tenere conto dei sentimenti “spontanei” delle masse. Deducendo dall’esperienza ordinovista lezioni di carattere universale, egli afferma: «Questo elemento di “spontaneità” non fu trascurato e tanto meno disprezzato; fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo [...] Questa unità della “spontaneità” e della “direzione consapevole”, ossia della “disciplina”, è appunto l’azione politica reale delle classi subalterne, in quanto política di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa»13. E non è necessario insistere sul fatto che la lotta per questa unità tra movimento di massa e direzione consapevole, questo momento di sintesi “disciplinante” e di mediazione politico-universale, è il compito centrale del partito: di un partito che Gramsci concepisce come partito di massa, e non come gruppuscolo dottrinario e avventuriero. Superando il settarismo di Bordiga (contro il quale sembrano dirette le osservazioni summenzionate), ma anche lo spontaneismo di Sorel o di Rosa Luxemburg, Gramsci incontra qui nuovamente la corretta dialettica tra oggettività e soggettività, tra spontaneità e coscienza che sta alla base del nucleo non “datato” dalla teoria leniniana del partito.

La formazione di una volontà collettiva si lega orgánicamente a ciò che Gramsci chiama, ripetutamente, «riforma intellettuale e morale». Il partito non lotta solo per un rinnovamento politico, economico e sociale, ma anche per una rivoluzione culturale, per la creazione e lo sviluppo di una nuova cultura. «Il moderno Principe – dice Gramsci – deve e non può non essere il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna»14. Gramsci riprende qui le sue antiche preoccupazioni giovanili sul lavoro culturale, sulla battaglia delle idee. Come pochi marxisti del suo tempo, egli comprende pienamente che il fronte culturale – insieme con i fronti economico e politico – è un terreno decisivo nella lotta delle classi subalterne per l’egemonia.

Ebbene, se la strategia di transizione verso il socialismo in “Occidente” implica un intenso sforzo per la conquista dell’egemonia, del consenso e della direzione politico-ideologica già prima della presa di potere, allora la battaglia culturale – momento fondamentale dell’aggregazione del consenso – asume un’importanza decisiva. Senza una nuova cultura, le classi subalterne continueranno a subire passivamente l’egemonia delle vecchie classi dominanti e non potranno elevarsi alla condizione di classi dirigenti. Gramsci ripete che la direzione política è anche e necessariamente direzione ideologica: lottando per la diffusione di massa di una nuova cultura – di una cultura che raccolga e sintetizzi i momenti più elevati della cultura della modernità, che unisca cioè la profondità intellettuale del Rinascimento con il carattere popolare e di massa della Riforma15, il «moderno Principe» creerà le condizioni per l’egemonia delle classi subalterne, per la loro vittoria nella «guerra di posizione» che conduce al socialismo.

Inoltre, poiché la costruzione piena della nuova società «regolata» implica in Gramsci, la fine della divisione tra governanti e governati, ossia l’assorbimento dello Stato-coercizione da parte degli apparati del consenso della società civile, è imprescindibile sopprimere non solo l’appropriazione privata dei mezzi di produzione delle ricchezze materiali, ma anche l’appropriazione privata o elitaria del sapere e della cultura, dei beni oggi chiamati “immateriali”. Solo così sarà possibile porre fine alla divisione tra «intellettuali» e «semplici» e, in questo modo, far venir meno l’appropriazione dei meccanismi di potere da parte di piccoli gruppi o di una burocrazia. La «riforma intellettuale e morale», dunque, rivela un secondo aspetto: se essa è condizione necessaria alla conquista dell’egemonia nelle società capitaliste «occidentali» complesse, è ugualmente elemento decisivo nella battaglia per mettere fine alla «statolatria» e al «governo dei funzionari» nel socialismo, ossia è decisiva nella lotta per la dissoluzione dello Stato e per la conseguentecreazione dell’«autogoverno dei produttori associati».

Questo posto decisivo che la «riforma intellettuale e morale» occupa nella riflessione di Gramsci determina il ruolo rilevante che egli attribuisce agli intellettuali nella formazione e nella costruzione del partito politico. «Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati intellettuali, ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di più esatto», dice Gramsci; e ciò non per il livello di erudizione di questi membri, ma per la funzione che esercitano per mezzo del partito, funzione «che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale»16. Perciò, interpretando adeguatamente il pensiero di Gramsci, Togliatti denominò il partito della classe operaia come «intellettuale collettivo»17. Se però esaminiamo la concezione che ha Gramsci degli intellettuali, può darsi che non sia esagerato capovolgere l’affermazione di Togliatti e dire che, per il nostro autore, anche l’intellettuale ha funzioni simili a quelle di un partito politico. Questo stretto vincolo tra la funzione intellettuale e la funzione del partito politico portò lo studioso francese Jean Marc Piotte a osservare giustamente: «Il partito corrisponde così bene alla nozione di intellettuale che si potrebbe credere che Gramsci definì l’intellettuale in relazione al partito e pensando al partito. Lo studio del partito, pertanto, sarebbe il modo migliore di comprendere la nozione di intellettuale»18.

Esistono – secondo Gramsci – due tipi principali di intellettuale. In primo luogo, abbiamo «l’intellettuale organico», che nasce in stretto legame con l’emergere di una classe sociale determinante nel modo di produzione economico, la cui funzione è dare omogeneità e coscienza a questa classe, «non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico»; e, in secondo, abbiamo gli «intellettuali tradizionali», che – essendo stati in passato una categoria di intellettuali organici di una data classe (per esempio, i «chierici», i membri della chiesa, in relazione alla nobiltà feudale) – formano oggi, dopo la sparizione di quella classe, uno strato relativamente autonomo e indipendente19. Ciò che importa porre qui in risalto è che entrambi i tipi esercitano oggettivamente funzioni analoghe a quella del partito politico: essi danno forma omogenea alla coscienza della classe a cui sono organicamente legati (o, nel caso degli intellettuali «tradizionali», alle classi a cui danno la propria adesione) e, in questo modo, preparano l’egemonia di questa classe nell’insieme dei suoi alleati. Sono, insomma, agenti del consolidamento di una volontà collettiva, di un “blocco sociale”.

Così, già nel suo saggio del 1926 sulla “quistione meridionale”, Gramsci mostrava come l’egemonia dei latifondisti sui contadini del Sud si dava non attraverso un partito politico vero e proprio, bensì attraverso il gruppo di intellettuali rurali intermedi che – diretti ideologicamente da Croce e da Giustino Fortunato – influenzavano i contadini poveri e li subordinavano agli interessi del blocco industriale-agrario che dominava l’Italia dell’epoca. «Il contadino meridionale – osservava Gramsci – è legato al grande proprietario terriero per il tramite dell’intellettuale»20. E nei Quaderni non saranno pochi i passi ove egli indica come grandi singoli intellettuali (o gruppi di intellettuali raggruppati in riviste, giornali, ecc.) esercitano frequentemente la funzione di partiti politici. È così, per esempio, che egli indica il partito «costituito da una élite di uomini di cultura, che hanno la funzione di dirigere, dal punto di vista della cultura, dell’ideologia generale, un grande movimento di partiti affini»21; o quando afferma che «un giornale (o un gruppo di giornali), una rivista (o un gruppo di riviste), sono anch’essi “partiti”,o “frazione di partito” o “funzione di determinati partiti”»22. Gramsci arriva persino a supporre che fosse stato il carattere cosmopolita degli intellettuali italiani (il fatto che essi furono intellettuali organici di una forza non nazionale-popolare, cioèla Chiesa cattolica) una delle cause principali della tarda unificazione nazionale italiana; gli intellettuali, svincolati dal popolo-nazione, non erano stati capaci di dare espressione coherente alla coscienza della classe borghese e di renderla elemento hegemónico nell’azione di un blocco sociale anticosmopolita. Insomma: in un’epoca in cui ancora non esistevano i partiti politici di massa, gli intellettuali italiani – al contrario, per esempio, dei francesi – non furono capaci di svolgere adeguatamente la funzione di costruttori di una volontà collettiva nazionale popolare egemonica23.

Ma, come abbiamo visto, se tutti i membri di un partito sono intellettuali, non tutti lo sono allo stesso livello. Ed è su questa differenza di livello che Gramsci costruì la sua nota teoria della struttura organizzativa del “moderno Principe”. Usando le sue parole: «Perché esista un partito è necessario che confluiscano tre elementi fondamentali (cioè tre gruppi di elementi): 1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe “solamente” con essi [...]; 2) L’elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale [...], dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice [...]. È anche vero che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più che non il primo elemento considerato; 3) Un elemento medio, che articoli il primo con il terzo [sic: invece secondo] elemento, che li metta a contatto non solo ‘fisico’, ma morale e intellettuale»24. Gramsci, in un certo senso, concentra la sua attenzione sul secondo elemento, sullo strato che lui chiama dei «capitani». Solo con essi, di certo, come lui dice, non esisterebbe un partito. Però, poiché «è più facile formare un esercito che formare dei capitani»25, è a partire da questo strato che un partito politico di masse può strutturarsi. Mi sembra evidente che, redigendo queste note, Gramsci pensava all’esperienza del suo partito durante gli anni della repressione fascista: la messa a punto di uno strato di “capitani”, di dirigenti, dotato di coesione organica e di unità politica, era la condizione sine qua non per trasformare il PCI in un grande partito di massa, non appena fosse stato possibile – con la fine del fascismo – riunire l’“esercito” dei tesserati.

Nella misura in cui Gramsci (come Lenin) concepisce il partito rivoluzionario come un complesso strutturato e non come un’aggregazione amorfa di interessi corporativi, nella misura in cui solo quando è così coeso e strutturato è possibile che il partito operaio divenga organizzatore ed espressione di una volontà collettiva, è comprensibile che Gramsci assegni un ruolo privilegiato allo strato dei «capitani», al nucleo dirigente. Ma Gramsci non smette di osservare che un partito centralizzato rischia di perdere il carattere democratico del proprio centralismo, che diviene così un “centralismo burocratico”. Un partito coeso e centralizzato è democratico, pensa Gramsci, 1) quando si dà una circolazione permanente tra i tre strati al suo interno; 2) quando la sua funzione non è regressiva e repressiva, conservatrice dell’esistente, ma progressista, volta a «tenere nell’orbita della legalità le forze reazionarie spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate»; 3) quando non è «puro esecutore », ma anche «deliberante»26. Nel caso perda questo carattere democratico, un partito coeso e centralizzato – burocratizzandosi -diviene «tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di Partito politico è una pura metafora di carattere mitológico»27. Formulando questa osservazione, Gramsci probabilmente aveva in mente il partito fascista; ma non è affatto da escludere, anzi, che egli pensasse anche alle nuove caratteristiche che il Partito comunista dell’URSS stava assumendo dopo, soprattutto, l’involuzione stalinista degli anni 1928-1929. Anche in questo caso, grazie all’identificazione rigida tra partito e Stato (criticata, come abbiamo visto, da Gramsci) e al carattere represivo assunto nella sua vita interna, il PCUS era divenuto molto più un esecutore che un deliberatore; il centralismo democratico, teorizzato e quasi sempre applicato da Lenin, era stato chiaramente sostituito da un centralismo di tipo burocratico-autoritario28. Ossia: il PCUS aveva assunto proprio le caratteristiche che Gramsci critica duramente nelle sue note.

E se Lenin non è responsabile diretto di questa involuzione, Gramsci – che arricchì la teoria leniniana del partito, persino mettendo in guardia sui rischi autoritari e “polizieschi” che un partito centralizzato comporta – può ancora meno essere considerato difensore di una concezione stalinista e totalitaria del partito e della società socialista in generale29. È certo che egli non formulò in modo chiaro, né forse poteva farlo in quegli anni, una teoria esplicita del pluralismo socialista; di nuovo, questo compito sarebbe spettato agli eredi di Gramsci, in particolare a Togliatti, la cui teoria della “democrazia progressiva” implica la chiara affermazione della possibilità di costruire il socialismo con una pluralità di partiti e di movimenti sociali. Ma nella stessa concezione di Gramsci – nella sua teoria della fine dello Stato, nella sua critica alla “statolatria”, nel suo rifiuto di identificare partito e Stato nel socialismo, nella sua difesa del rafforzamento della società civile dopo la presa di potere, ecc. –, sono contenuti in nuce i fondamenti del superamento dialettico di alcuni aspetti eccessivamente “datati” della teoria leniniana del partito della rivoluzione socialista, che pure è stata in gran parte assimilata dall’autore dei Quaderni. Inoltre è lo stesso storicismo di Gramsci che lo porta ad affermare chiaramente la necesità di un rinnovamento permanente della teoria e della pratica del partito dei lavoratori, in armonia con il rinnovamento della stessa realtà e come condizione per svolgere adeguatamente la funzione per cui tale partito venne creato. «È vero che si può dire – afferma Gramsci – che un partito non è mai compiuto e formato, nel senso che ogni sviluppo crea nuovi compiti e mansión e nel senso che per certi partiti [quelli della rivoluzione socialista] è vero il paradosso che sono compiuti e formati quando non esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile [perché raggiungeranno gli obiettivi per cui sono stati creati]»30

ATTUALITÀ DI GRAMSCI

Gramsci morì nel 1937, ossia quasi settant’anni fa. È normale così che si ponga oggi la questione se egli sia ancora attuale, o, al contrario, se si tratta soltanto di un pensatore “classico”, cioè lontano dai problemi della nostra contemporaneità. A mio avviso, sono moltissime le ragioni che, senza negare la “classicità” di Gramsci, portano a sostenere la sua attualità. È difficile trovare un solo campo del pensiero sociale – dalle scienze umane fino alla filosofia e alla critica letteraria – al quale Gramsci non abbia dato un importante contributo. Le sue riflessioni in tutti questi campi hanno fornito temi nuovi, proposto nuove risposte a vecchie questioni, indicato nuovi spunti di ricerca e di analisi. Del resto, se questo contributo è decisivo per i marxisti, è stato significativo anche per studiosi di altre correnti ideologico-politiche. Chi conosce, per esempio, la storia della teologia della liberazione, sa che questa importante corrente di idee – tanto rilevante in America Latina, malgrado gli interventi repressivi del Vaticano – fu ed è ancora fortemente influenzata dalle riflessioni gramsciane31. Gli esempi si potrebbero moltiplicare32.

È bene, però, che si ponga subito una precisazione indispensabile: l’attualità di Gramsci non è, semplicemente, l’attualità di ogni pensatore “classico”. Come si sa, nel quadro dell’odierna egemonia neoliberista, non sono pochi coloro che, anche nell’ambito della sinistra, cercano di mummificare Gramsci, trasformándolo in mero “classico”: egli sarebbe certamente “attuale”, ma come lo è ogni classico. Non c’è dubbio che anche Machiavelli e Hobbes, per esempio, sono attuali: chi ha letto Il Principe o il Leviatano sa che innumerabili riflessioni che si trovano in queste opere continuano a essere importanti per comprendere la politica del nostro tempo. Ma non è questo iltipo di attualità di Gramsci: anche se di fatto è un “classico”, nel senso indicato da Valentino Gerratana – «“classico” è un interprete del proprio tempo che rimane attuale in ogni tempo» –33, l’attualità dell’autore dei Quaderni, al contrario di quella di Machiavelli o di Hobbes, risulta dal fatto che egli è stato interprete di un mondo che, nella sua essenza, continua a essere il nostro mondo di oggi

Uno dei temi centrali di Gramsci è stato il capitalismo del secolo XX, le sue crisi e contraddizioni, la morfologia politica e sociale prodotta da questa formazione sociale. In questo campo specifico, i problemi da lui affrontati sono ancora presenti, anche se, in molti casi, sotto nuove vesti. Inoltre, sono anche stati oggetto della sua riflessione – Gramsci fu contemporaneo della Rivoluzione russa del 1917 – i primi movimenti che tentarono di costruire una società che oltrepassasse quella capitalistica. Una ampia parte della sua opera, è dedicata allo sforzo di teorizzare i sentieri della rivoluzione socialista in quello che lui ha chiamato “Occidente”. Ora, esattamente perché il capitalismo e le sue contraddizioni permangono, il socialismocontinua a porsi come una questione centrale nell’agenda política contemporanea. Gramsci, in questo senso, è un interprete del nostro tempo: la sua attualità, pertanto, non è la stessa di un Machiavelli o di un Hobbes. Il movimento apparentemente lusinghiero che vuole trasformarlo in mero “classico” occulta, molte volte, una dissimulazione: è quasi sempre la mossa di coloro che, senza voler rompere apertamente con Gramsci (per svariati motivi), vorrebbero, alla fine, squalificarlo come interlocutore privilegiato del dibattito politico odierno.

UN ALTRO MODELLO DI SOCIALISMO

Una delle principali ragioni dell’attualità di Gramsci è la sua originale riflessione sul socialismo. Certo, si potrebbe pensare che proprio il suo essere socialista, lungi dal dimostrarne l’attualità, dimostrerebbe, al contrario, quanto Gramsci sia superato. Di fatto, oggi ci troviamo di fronte non solo a una crisi, ma al fallimento chiaro del cosiddetto “socialismo reale”, il cui collasso, cominciato nel 1989 con il crollo del Muro di Berlino, ha portato rapidamente all’abbandono del socialismo in tutti i paesi dell’Europa dell’Est e, alla fine, alla disgregazione della stessa Unione Sovietica. Quello che è stato chiamato, un poco impropriamente, il “comunismo storico” – cioè il movimento che comincia con la vittoria dei bolscevichi in Russia nel 1917, che cerca di universalizzarsi con la formazione di partiti comunisti legati a questo modello bolscevico in tutto il mondo e che si espande, a partire dalla Seconda guerra mondiale, con la formazione di un “blocco socialista” costruito da vari paesi che seguirono il modello sovietico – questo “comunismo storico” è entrato in una crisi terminale.

Ora, Gramsci è stato indubbiamente legato – in modo organico – al “comunismo storico”. Già nel 1917 egli difese con ardore la rivoluzione bolscevica, come si può vedere dal famoso articolo La rivoluzione contro “Il Capitale”, nel 1921, egli è stato uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia, del quale era il principale dirigente nel 1926, quando fu arrestato dal fascismo; durante gli anni di prigione e fino alla morte, nel 1937, Gramsci rimane fedele alle sue vecchie scelte politico-ideologiche. Però, nonostante si sentisse vincolato al “comunismo storico” – ciò che gli permise, del resto, di mantenersi fedele ai valori emancipatori del socialismo –, Gramsci non è mai stato un dogmatico: ha sempre reagito in modo critico alle vicissitudini di tale movimento, assumendo frequentemente posizioni che andavano contro molti degli orientamenti e delle tendenze in esso prevalenti. È stato così che, nei Quaderni, un’arguta e dura analisi critica del modello di socialismo che veniva imposto in UnioneSovietica. Oltre a ciò, non sono stati pochi i momenti, nei quali, sia prima che durante la prigionia, Gramsci ha manifestato apertamente le proprie divergenze rispetto alla linea adottata dal movimento comunista (e perfino dal suo stesso partito).

Vale la pena ricordare però che queste critiche e discordanzenon autorizzano assolutamente a fare di Gramsci un socialdemocratico, o persino un liberalriformista, difensore della “regolazione del mercato” e della “poliarchia”34: al contrario, egli è stato ed è rimasto, perfino attraverso le sue critiche all’Urss e al suo stesso partito, un socialista rivoluzionario, un comunista. Equesto lo rende ancora di più attuale per la sinistra, in un momento in cui molti intellettuali – nonostante si dichiarino gramsciani – hanno capitolato, teoricamente e praticamente, davanti alle distorsioni diffuse dall’onda neoliberista. Ma la sua attualità risiede soprattutto nel fatto che il suo pensiero non rafforza tentazioni anacronistiche di regredire verso il dogmatismo: egli è stato un comunista critico, eretico, ciò che gli ha permesso di evitare la maggior parte dei blocchi teorici e pratici sorti dal cosiddetto “comunismo storico”. Un esempio, tra altri, è la celebre lettera di Gramsci al Comitato centrale del Pcus, dove egli si oppone apertamente ai metodi burocratico-autoritari di affrontare le divergenze politiche. Già ho anche esaminato più distesamente, la famosa nota dove Gramsci parla della “statolatria”, pronunciandosi apertamente contro il modello “statolatrico” seguito dall’Urss (sebbene questa non sia nominata esplicitamente), ossia contro il movimento teorico e pratico orientato a identificare lo Stato soltanto con la “società politica”, con gli apparati coercitivi, con il “governo dei funzionari”, con esclusione dell’elemento consensuale-egemonico proprio della “società civile”, dell’“autogoverno”. In questa densa nota, Gramsci non lascia dubbi: il socialismo che lui propone non si identifica con il dominio della burocrazia, ma richiede la costruzione di una forte società civile che garantisca la possibilità dell’autogoverno dei cittadini, ossia di una democrazia pienamente realizzata. A differenza dei marxisti socialdemocratici che si opponevano alla rivoluzione bolscevica e all’Unione Sovietica (Kautsky, Plekhanov, Bernstein e tanti altri), Gramsci – come Rosa Luxemburg – difende la necessità della rivoluzione e solidarizza, anche se criticamente, con i suoi primi passi. Ma, allo stesso tempo, si allontana chiaramente dalla direzione che l’Unione Sovietica comincia a prendere a partire dagli anni trenta, quando la statolatria diventò “fanatismo teorico” e si trasformò in un elemento “permanente”, consolidando così un “governo di funzionari” che, nel reprimere la società civile e le possibilità dell’autogoverno democratico dei cittadini, diede luogo a un dispotismo burocratico che non aveva niente in comune con gli ideali emancipatori e libertari del socialismo marxista. La transizione verso il socialismo venne perciò bloccata, mentre al suo posto sorgeva una società “statolatrica”.

Perciò, in questa breve ma densissima nota sulla “statolatria” (come pure in molti altri passi della sua opera), Gramsci cipropone un altro modello di socialismo, un modello in cui il centro del nuovo ordine deve risiedere non nel rafforzamento dello Stato, ma nell’ampliamento della “società civile”. Nella «società regolata» – la bella espressione ideata da Gramsci per designare il comunismo –, egli sostiene che «l’elemento Stato coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile)»35. Ora, come abbiamo visto, le istituzioni proprie della società civile sono quello che Gramsci chiama «apparatti “privati” di egemonia», ai quali si aderisce consensualmente; ed è precisamente questa adesione consensuale ciò che li distingue dagli apparatti statali stricto sensu, cioè dal «governo dei funzionari», le cui decisioni sono imposte coercitivamente, dall’alto in basso. Quindi, affermare «elementi sempre più cospicui» di società civile significa ampliare progresivamente l’ambito di attuazione del consenso, ossia di una sfera pubblica intersoggettivamente costruita, facendo sì che le interazioni sociali vengano a perdere sempre più il loro carattere coercitivo. Socialismo significa così per Gramsci – come per Marx – la fine dell’alienazione, dell’eteronomia degli uomini di fronte alle loro stesse creazioni collettive; con il superamento dell’alienazione, si apre la possibilità per i singoli di costruire autonomamente la loro propria storia e di controllare collettivamente le proprie relazioni sociali, fatto che per Marx significava appunto la fine della “preistoria”. Dopo aver definito la sua concezione di «società regolata», ossia comunista, Gramsci scrive: «Né ciò può far pensare a un nuovo “liberalismo”, sebbene sia per essere l’inizio di un’era di libertà organica»36. In altri termini, si tratta di una libertà che non deve essere solo “negativa”, quella cioè degli individui privati di fronte allo Stato, come nella concezione liberale della libertà, ma che deve essere anche “positiva”, come nella tradizione democratica, ossia, una libertà che si manifesta nella costruzione autonoma e collettiva delle regole e delle norme che modellano lo spazio pubblico della vita sociale.

Per accentuare il carattere di attualità della definizione di socialismo in Gramsci, penso che sia opportuno avanzare un parallelo delle sue posizioni con quelle di Jürgen Habermas, un pensatore che gode oggi di grande prestigio tra gli intellettuali di sinistra. Semplificando il pensiero habermasiano, direi che inesso ci sono due tipi di interazione sociale: le interazioni sistemiche, che egli chiama di “potere” e “denaro”, o Stato-burocrazia e mercato, le quali si impongono coercitivamente agli individui e nelle quali vige una razionalità strumentale; e l’interazione comunicativa, propria del “mondo della vita”, nella quale domina un altro tipo di razionalità, fondata sul libero consenso intersoggettivo. Politicamente, la proposta di Habermas può essere così (anche schematicamente) sintetizzata: dobbiamo lottare affinché il mondo della vita non sia “colonizzato” dalle interazioni sistemiche, colonizzazione che porterebbe al dominio di una razionalità reificata e coercitiva sulla ragione comunicativa, la quale è sempre costruita intersoggettivamente37. Si tratta di una proposta certamente generosa, ma rassegnata e, in ultima analisi, conformista: anche se riuscissimo a evitare la colonizzazione del “mondo della vita”, cioè la sua completa reificazione – e i mezzi che Habermas suggerisce a tal proposito mi sembrano utopici e irrealistici —, siamo invitati a rassegnarci di fronte alla presenza supposta inevitabile del “potere” e del “denaro”, i quali, se pure non oltrepassano i loro ambiti specifici per diventare “colonizzatori”, sono considerati da Habermas relata proprie della modernità, realtà che, secondo lui, possono essere limitate, ma non superate.

La proposta gramsciana è certamente più radicale: la «società regolata» è concepita come costruzione progressiva – Gramsci parla di «elementi sempre più cospicui» – di un ordine sociale globale fondato sul consenso, sull’autogoverno, nel quale la sfera pubblica intersoggettiva (la «società civile») subordina e assorbe in sé il “potere” e il “denaro”, cioè, lo Stato-coercizione e il mercato. E Gramsci, oltre tutto, mi sembra più realista di Habermas: egli sa che questa vittoria del consenso sulla coercizione – la costruzione di uno spazio pubblico comunicativo libero da coercizione, a dirla con Habermas, o di una “società regolata”, per usare la stessa terminologia gramsciana – dipende da un processo complesso di lotte sociali, capace di condurre alla progressiva eliminazione della società divisa in classi antagonistiche, ossia del principale ostacolo affinché gli uomini possano effettivamente regolare in modo consensuale le loro interazioni sociali. L’immagine della “società buona” proposta da Gramsci, in questo modo, mi sembra allo stesso tempo più radicale e piùrealista di quella proposta da Habermas.

UNA CONCEZIONE RADICALE DI DEMOCRAZIA

Questo nuovo modello di socialismo implica in Gramsci, una nuova visione di democrazia, nuova non solo in relazione alla tradizione marxista, ma anche – e soprattutto – nei confronti della tradizione liberale. Da un lato, nell’ambito del “comunismo storico”, di cui Gramsci seguita a far parte, poche volte si è andati oltre una visione strumentale della democrazia. Lenin, per esempio, usava definirla come la «miglior forma di dominazione borghese» dal punto di vista della lotta dei lavoratori; o, quando parlava positivamente di «democrazia proletaria» (consiliare o di base), insisteva nel contrapporla alla «democrazia borghese» (rappresentativa o parlamentare), introducendo così una alternativa come minimo problematica, se ricordiamo che la “democrazia rappresentativa” è anche una conquista dei lavoratori (basti pensare alle lotte della classe operaia per il suffragio universale). E, d’altra parte, quando il pensiero liberale finalmente adottò in modo positivo la parola “democrazia” (dopo averla apertamente combattuta durante buona parte dei secoli XVIII e XIX), la definì in modo minimalista, cioè, come il semplice rispetto di “regole del gioco” anch’esse sempre più minimaliste. Si creò così una nozione di “democrazia” che, diversamente di quella proposta da Rousseau, non metteva in discussione i fondamenti non egualitari dell’ordine sociale. Basti ricordare qui l’emblematica definizione di democrazia presentata da Schumpeter, un pensatore liberale del secolo XX, per il quale “democrazia” non è altro che un semplice metodo di selezione delle élites attraverso elezioni periodiche38.

La rivalutazione gramsciana della democrazia non si àncora così né al pensiero liberale né alle formulazioni più datate del “comunismo storico”, ma rimanda piuttosto ai classici della filosofia politica, in particolare a Rousseau e a Hegel. Non credo di sbagliare se affermo che Gramsci – insistendo sul ruolo del consenso nello “Stato allargato” – abbia reintrodotto nell’ambito del pensiero marxista elementi della problematica del contrattualismo, non nella sua versione liberale (o lockiana), ma nella versione democratico-radicale proposta da Rousseau. Nonostante Gramsci sia stato il pensatore marxista che forse ha sviluppato di più questa problematica contrattualista, non dobbiamo dimenticare che ad essa aveva fatto già cenno lo stesso Engels, nel 1895, anno della sua morte. In un testo in cui avanza esplicitamente un’autocritica delle formulazioni che lui e Marx avevano difeso nel 1848-1850, all’epoca del Manifesto del partito comunista, e dopo aver suggerito una nuova strategia di transizione al socialismo – che, fondata su un «lavoro lungo e perseverante» anche attraverso le istituzioni, anticipa perfino letteralmente la strategia gramsciana della «guerra di posizione» –, il vecchio Engels afferma quanto segue: «L’Impero tedesco, come tutti i piccoli Stati e, in generale, tutti gli Stati moderni, è prodotto di un contratto; prima, di un contratto tra i principe e, dopo, dei principi con il popolo»39. Senza abbandonare il núcleo della teoria marxista dello Stato, che afferma la sua natura di classe e la sua dimensione coercitiva, Engels coglie qui un’altra caratteristica del fenomeno statale “allargato”, cioè la sua dimensione contrattualista (o consensuale), dimensione già presente nelle teorie liberali (particolarmente in Locke), ma che riceve una rilettura radicalmente democratica solo nell’opera di Rousseau.

Ritengo che il contributo di Gramsci alla teoria democratica raggiunga la sua espressione più alta nel concetto di egemonia. E credo anche che sia precisamente questo concetto il punto principale di articolazione fra le riflessioni gramsciane e alcuni dei più significativi complessi problematici della filosofia política moderna, in particolare quelli contenuti nei concetti di volontà generale e di contratto. È chiaro che non pretendo di negare l’ovvio legame di Gramsci con il marxismo,  ma sono convinto che – nella sua costruzione della teoria di egemonia – egli abbia dialogato non solo con Marx e Lenin o con Machiavelli, cosa che ha fatto in modo esplicito, ma anche con altre grandi figure della filosofia moderna, in pa rticolare con Rousseau e con Hegel. Anche se Rousseau non risulta citato molte volte nell’opera di Gramsci, in essa si può registrare la presenza di molti temi simili a quelli affrontati dall’autore del Contratto sociale; penso, soprattutto, al fatto che in Gramsci vi è un concetto analogo a quello di «volonté générale», centrale nell’opera del ginevrino, ossia il concetto di «volontà collettiva», o «volontà collettiva nazionale- popolare», ripetutamente utilizzato dal pensatore italiano. Quanto a Hegel, si tratta di uno degli autori più citati da Gramsci, che da lui prende non solo lo spunto iniziale per elaborare il suo specifico concetto di «società civile»40, ma anche la nozione di «Stato etico», mediante la quale, mette a punto la sua concezione di «società regolata» o comunista.

Ora, una delle principali caratteristiche del concetto gramsciano di egemonia è l’affermazione che, in una relazione egemonica, si manifesta sempre una priorità della volontà generale sulla volontà singolare o particolare, o dell’interesse comune o pubblico sull’interesse individuale o privato; ciò appare evidente quando Gramsci dice che l’egemonia implica un passaggio dal momento «economico-corporativo» (o «egoistico-passionale») al momento etico-politico (o universale). Non insisterò qui sul fatto che questa priorità del pubblico sul privato, o il predominio della «volontà generale», è – al di là della definizione delle pur necessarie “regole del gioco” – l’essenza della democrazia intesa in senso “repubblicano”. Questa priorità, che era già decisiva nella definizione aristotelica del “buon governo”, riappare con forza nel pensiero democratico moderno; in Rousseau, per esempio, tale priorità diventa il criterio decisivo per valutare la legittimità di ogni ordinamento politico-sociale ed economico. Non è per caso, dunque, che nella sua opera emerga un concetto fondamentale per la teoria democratica, proprio il concetto di “volontà generale”, che non esiste nella tradizione liberale; in questa tradizione, si trova soltanto, quando lo si trova, il concetto di “volontà di tutti”, inteso – a dirla con lo stesso Rousseau – come la somma dei molti interessi privati o particolari41. Anche nella filosofia politica di Hegel, autore che ugualmente si situa al di fuori della tradizione liberale, il concetto di volontà generale o universale occupa un posto centrale, diventando il fondamento della sua difesa della priorità dell’universale sul singolare, del pubblico sul privato. Tuttavia, a fronte di Rousseau, Hegel si distingue per l’attenzione maggiore che dà alla dimensione della particolarità nel mondo moderno, cioè alle mediazioni che intercorrono fra la volontà universale e le volontà singolari o individuali.

Ora, se il grande merito di Rousseau risiede nell’affermazione della priorità della volontà generale come fondamento di ogni l’ordine sociale legittimo (democratico-repubblicano), il punto debole della sua riflessione consiste nel presupposto che questa volontà generale sia qualcosa che si contrappone drásticamente alle volontà particolari e, in ultima istanza, le reprime (gli uomini devono “essere costretti a essere liberi” affinché agiscano secondo la volontà generale). In Rousseau, la volontà generale non è un rafforzamento o un approfondimento delle volontà particolari, ma il suo contrario. Mi permetto di usare metaforicamente un noto concetto di Freud: in rapporto alla “volontà generale”, intesa come un “super-io”, la volontà particolare, presentata come un “inconscio” ribelle, è come se fosse “rimossa” o “repressa” dalla prima. In tal modo, anche se, da buon democratico, Rousseau afferma enfaticamente la priorità del “cittadino” sul “borghese”, del pubblico sul privato, riconferma così la lacerazione dell’uomo tra questi due estremi di una dicotomia insuperata. E, come il giovane Marx aveva già osservato, è naturale che il “rimosso” ritorni o, più precisamente, che gli interessi particolari della società civile borghese finiscano per trionfare sull’universalità del cittadino42

Nell’opera di Hegel c’è una chiara proposta di superamento di queste limitazioni del pensiero di Rousseau, che però si mescola allo stesso tempo con l’abbandono di alcune importanti conquiste teoriche del pensatore ginevrino. Dopo essere stato, nella sua gioventù, un repubblicano che si ispirava a Rousseau, Hegel nella maturità passa a riconoscere che il mondo moderno – a differenza della Grecia classica, che era stata il modello di Rousseau e il suo paradigma giovanile – si caratterizza per la posizione centrale che ivi occupa la particolarità o, più precisamente, per l’emergere di quella che il filosofo tedesco ha chiamato «società civile» (bürgerliche Gesellschaft). Al contrario dei liberali, Hegel cerca di articolare questa affermazione della particolarità con il principio repubblicano della priorità del pubblico sul privato; ma, allo stesso tempo, differenziandosi da Rousseau, ha piena coscienza che la pura e semplice repressione della particolarità è incompatibile con lo spirito dell’epoca moderna. Anche Hegel, perciò, vede che esistono contraddizioni tra il privato e il pubblico, tra il particolare e l’universale, ma pensa che il modo di risolvere tali contraddizioni non sia la “repressione” freudiana, ma il superamento dialettico (Aufhebung) delle volontà particolari, o “social-civili”, nella volontà universale, o “statale”.

Per promuovere questo superamento, Hegel creò il concetto di “eticità”, o di “vita etica”, che sarebbe la sfera sociale, dove sorgono valori comunitari o universali, nati dall’inserimento degli individui in interazioni sociali oggettive e non solo dalla moralità soggettiva; con ciò, egli vuole determinare, o atribuiré dimensione concreta alla nozione di volontà generale, che in Rousseau rimane ancora astratta e formale. Per Hegel, dunque, la volontà generale non è risultato dell’azione delle singole volontà “virtuose”, come in Rousseau, ma è una realtà ontologico sociale che precede e determina le stesse volontà singole. E questa oggettività della volontà generale scaturisce dal fatto che sono anche oggettive le mediazioni che intercorrono fra i due livelli della volontà: è attraverso soprattutto l’azione delle “corporazioni”, un soggetto collettivo che situa già al livello della società civile (e che si avvicina molto più ai sindacati moderni che agli istituti medioevali), che Hegel cerca di determinare la relazione interna tra la volontà singolare degli “atomi” della società civile e la volontà universale che, secondo lui, si manifesterebbe nello Stato.

Ma, se questo tentativo di determinare concretamente la volontà generale è un passo avanti in relazione a Rousseau, ci sono altri momenti in cui Hegel – dal punto di vista della costruzione di una teoria democratica – retrocede chiaramente rispetto all’autore del Contratto sociale. Non penso tanto alle posizioni evidentemente datate della filosofia politica di Hegel, come la difesa della monarchia ereditaria, di una Camera Alta formata dai nobili, o la condanna della sovranità popolare e della rappresentazione politica fondata sull’idea di “una testa, un voto”. Penso, soprattutto, al fatto che – nel dedicarsi correttamente al tentativo di superare il moralismo astratto presente nel concetto roussoiano di volontà generale – Hegel è stato portato ad abbandonare la dimensione contrattualistica (o, più precisamente, consensuale) che sta al centro della proposta democratica di Rousseau: come si sa, l’autore della Filosofia del diritto è stato un durissimo critico di qualsiasi specie di contrattualismo. Così, nel combattere il soggettivismo di Rousseau, Hegel finisce per adottare un oggettivismo ugualmente unilaterale. Egli arriva persino a dire che «la volontà oggettiva [generale] è il raciónale in sé nel suo concetto, sia esso riconosciuto o meno dalla volontà singola, e sia, o non, voluto dal suo libito [volere]»43. In questo modo Hegel minimiza chiaramente la dimensione intersoggettiva e creatrice della prassi umana e, in particolare, della prassi politica.

Ora, nell’opera di Gramsci, particolarmente nel suo concetto di egemonia, si può notare un’assimilazione di ciò che c’è di più valido e lucido nelle riflessioni di Rousseau e di Hegel; ma, allo stesso tempo, si possono anche registrare feconde indicazioni sul come superare i limiti e le aporie di questi due grandi filosofi. Da un lato, Gramsci prende da Hegel (e, naturalmente, da Marx, che anche, a sua volta, si abbevera alla fonte hegeliana) l’idea che le volontà sono determinate già al livello degli interessi materiali ed economici; e da lui deriva anche l’affermazione che queste volontà si sottopongono oggettivamente a un processo di universalizzazione che porta alla formazione di soggetti collettivi44. Tali soggetti sono mossi da una volontà sempre più universale (o, nella terminologia gramsciana, da una volontà che supera la ricerca di interessi meramente «economico corporativi» e si orienta nel senso di una coscienza «etico politica»). Questo movimento di superamento, a cui Gramsci dà il nome suggestivo di «catarsi»45 è, proprio ciò che configura un rapporto egemonico. Ma, d’altro canto, si può anche costatare che Gramsci – nella misura in cui definisce come consensuale l’adesione a tali «apparatti di egemonia» e li include all’interno del proprio Stato «allargato» o li considera il centro della futura «società regolata» – introduce una chiara dimensione contrattuale, sebbene parziale, nel cuore della sfera pubblica; e, con questo, riprende una nozione roussoiana abbandonata da Hegel. Così, se Gramsci mutua da Hegel la nozione di «eticità» (che in lui appare con i termini di «egemonia» o di «eticopolitico»), raccoglie allo stesso tempo da Rousseau la concezione della politica come contratto, o più precisamente come consenso, cioè come costruzione intersoggettiva di una «volontà generale» (che in lui riceve il nome di «volontà collettiva nazionale-popolare»).

È vero che, per Gramsci, l’attuazione della dimensione contrattuale della politica si compirà pienamente solo nell’ambito di quello che lui chiama «società regolata» (o comunista), cioè quando sarà definitivamente superata la divisione della società in classi sociali antagonistiche. Ma, nella misura in cui egli difende la strategia della «guerra di posizione» nella lotta per il socialismo – il che implica un cambiamento progressivo deirapporti di forza –, è possibile dire che il processo di allargamento delle sfere consensuali prende corpo ancora prima del completo affermarsi della «società regolata»; comunque, è precisamente attraverso questo processo che si viene concretizando la costruzione di una nuova egemonia. Per l’autore dei Quaderni, la costruzione del comunismo è qualcosa che avviene in forma progressiva, grazie – ricordiamo le sue parole – all’«affermazione di elementi sempre più cospicui di società regolata.» Così come Freud diceva che, al posto dell’“inconscio”, dobbiamo impegnarci a mettere l’“io”, Gramsci sembra dirci: al posto della coercizione, sia che questa provenga dallo Stato o dal mercato, dal “potere” o dal “denaro”, dobbiamo introdurre sempre di più sfere di consenso, di controllo intersoggettivo delle interazioni sociali, ossia dobbiamo camminare verso la costruzione di un ordine sociale sempre più consensuale e meno coercitivo. Non mi sembra casuale che le conclusioni della prima parte di questo lavoro, dove si trattava della concezione gramsciana del socialismo, siano analoghe a quelle che sorgono adesso, dopo aver riepilogato la teoria gramsciana della democrazia. Nel proporre un nuovo concetto sostanziale di democrazia, centrato sull’affermazione repubblicana della prevalenza consensuale (e dunque egemonica) del pubblico sul privato, e nell’identificazione di questo concetto di democrazia con la sua nozione di «società regolata» o comunista, Gramsci ci insegna – superando tanto la tradizione del cosiddetto “marxismo-leninismo” quanto quella del liberalismo nelle sue varie versioni – che se senza democrazia certamente non c’è socialismo, neanche esiste vera democrazia senza socialismo. La comprensione di questo nesso indissolubile tra socialismo e democrazia è certamente una delle principali ragioni dell’attualità dell’autore dei Quaderni.

CON GRAMSCI, OLTRE GRAMSCI

Come ho già detto, l’attualità di Gramsci risulta dal carattere profondamente universale del suo pensiero, una universalità che si manifesta in un doppio senso, nel senso cioè della sua validità epocale, ma anche, di conseguenza, nel senso che le su idee sono oggi discusse e utilizzate non solo in Italia e in Europa, ma in tutto il mondo. Nell’epoca della cosiddetta “globalizzazione”, ciò gioca certamente a favore di Gramsci. È da ricordare però che il riconoscimento della novità e dell’universalità delle formulazioni di Gramsci non si ebbe immediatamente dopo la pubblicazione dei Quaderni. Come era ovvio, i primi “gramsciani” tendevano a concepirlo come semplice precursore della “via italiana al socialismo”. In un’epoca in cui le eresie nei confronti del “marxismo leninismo” – cioè dello “stalinismo” – potevano esprimersi solo (quando potevano) sotto forma di “comunismi nazionali”, non deve sorprendere questa tendenza a racchiudere Gramsci nei confini della problematica del suo paese. Persino coloro che si muovevano praticamente nell’ambito del rinnovamento teorico promosso da Gramsci dovevano — come è stato spesso il caso dello stesso Togliatti, per motivi “tattici” e/o per la persistenza di abitudini mentali radicate – minimizzare la novita e l’universalità dell’autore dei Quaderni, presentandolo come un “leninista” tout court. Nella relazione dialettica tra Gramsci e Lenin, si privilegiava così unilateralmente il momento della conservazione, a scapito del superamento a un livello superiore. Fu necessari aspettare il compiuto abbandono dei vecchi dogmi staliniani ereditati dalla Terza Internazionale per assistere al progressivo riconoscimento che Gramsci non era e non è semplicemente “il più grande leninista italiano”, bensì il più importante pensatore politico marxista del Novecento46

Riconoscere la dimensione epocale di Gramsci non significa però, in nessun modo, supporre che siano contenute nella sua opera risposte pronte e finite per tutte le sfide teoriche e pratiche che la realtà di oggi pone ai marxisti e ai socialisti in generale. Ho cercato di mostrare, come mancasse ancora alla strategia gramsciana della «guerra di posizione» e della conquista dell’egemonia una maggiore articolazione e concretezza. Fu proprio Togliatti il primo a tentare questo processo di traduzione concreta delle indicazioni gramsciane, elaborando la sua concezione della «democrazia progressiva» come forma di transizione al socialismo47. Ma questo processo non cessò con Togliatti; basti pensare, ad esempio, alle riflessioni di Pietro Ingrao, svolte soprattutto negli anni settanta, sulla “democrazia di massa” come integrazione di democrazia di base e di democracia rappresentativa, e sulla necessità di articolare egemonia e pluralismo nella lotta per il socialismo e nella costruzione della società socialista48.

In questi casi, del resto, non si tratta semplicemente di una “applicazione” del pensiero di Gramsci a realtà concrete: si tratta, allo stesso tempo, di uno sviluppo teorico-politico che conserva e supera le posizioni originali gramsciane. Certamente, è impossibile intendere la nozione della «democrazia di massa» di Ingrao senza metterla in relazione alla concezione gramsciana di «società civile» e di «egemonia»; ma sarebbe anche sbagliato non vedere che la nozione di egemonia nel pluralismo (che implica questa sintesi di democrazia diretta e democracia rappresentativa) è in Gramsci una nozione soltanto embrionale, che non venne sviluppata adeguatamente, e che al suo tempo forse non potesse ancora esserlo49. Pertanto, l’universalità di Gramsci non esime i marxisti odierni che a lui si ispirano da due compiti basilari: 1) rendere concrete le sue formulazioni teoriche generali, aggiornandole nei riguardi della propria epoca storica e della propria realtà nazionale; 2) continuare lo sviluppo teorico dei concetti di Stato e di rivoluzione socialista, arricchendo le concezioni gramsciane con le nuove connotazioni recate dall’evoluzione della realtà dopo la sua morte.

Ho provato a indicare – riferendomi brevemente ad alcune posizioni di Togliatti e di Ingrao – come entrambi gli sviluppi furono portati avanti, almeno fino agli anni ’70, dai comunisti italiani. Ma proprio per evidenziare l’universalità di Gramsci, è importante ricordare che questo processo dialettico di “conservazione/ rinnovamento” non si è limitato agli italiani. Basterebbe ricordare qui l’opera di Nicos Poulantzas, autore di una delle più lucide riflessioni politiche marxiste degli ultimi decenni. Dopo una fase in cui era stato profondamente influenzato dal formalismo strutturalista di Althusser, Poulantzas – nella sua ultima e più importante opera – riprese la propria originaria ispirazione gramsciana; ciò gli permise di presentare, come sintesi finale delle sue brillanti analisi dello Stato capitalistico odierno, una definizione esemplare del fenomeno statale: «Lo Stato [è] la condensazione materiale di un rapporto di forze fra classi e frazioni di classe, così come esso s’esprime, sempre in modo specifico, in seno allo Stato»50. Questa formulazione di Poulantzas ha una chiara ispirazione gramsciana: «La vita statale – scrive Gramsci – viene concepita come un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell’ambito della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibri in cui gli interessi del gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino allo gretto interesse economico-corporativo»51.

Del resto, quando “applica” la sua teoria dello Stato alla strategia di transizione verso ciò che lui chiama “socialismo democratico”, Poulantzas rivela di aver superato dialetticamente Gramsci: mentre questi concepiva la lotta per l’egemonia e per la conquista di posizioni come qualcosa che avveniva in seno alla società civile (agli «apparati privati di egemonia»), Poulantzas va oltre e parla in una lotta analoga che va combattuta anche all’interno degli stessi apparati statali in senso stretto (in ciò che Gramsci chiama «società politica»). In effetti, scrive Poulantzas: «Nel quadro di un via democratica al socialismo la presa del potere è quindi un processo lungo, che consiste, per l’essenziale, nello spiegare, rafforzare, coordinare e dirigere i centri di resistenza diffusi di cui le masse dispongono sempre in seno alle reti statali, nel crearne e svilupparne degli altri, finché questi centri non diventino, sul terreno strategico costituito appunto dallo Stato, i centri effettivi del potere reale. Non si tratta dunque di una semplice alternativa tra guerra frontale di movimento e guerra di posizione, giacché quest’ultima, dal punto di vista di Gramsci, è sempre un accerchiamento dello Stato roccaforte»52. Questo processo – aggiunge Poulantzas – «designa in realtà un susseguirsi di rotture effettive il cui punto culminante, e ne dovrà esistere per forza uno, consiste nel ribaltamento del rapporto di forze in favore delle masse popolari sul terreno strategico dello Stato»53.

Abbiamo qui, in un certo qual modo, un “superamento a livello superiore” della formulazione di Gramsci. Ma Poulantzas non avrebbe potuto sviluppare la sua strategia socialista democratica senza il concetto dello Stato “allargato” e senza la stessa teoria della «guerra di posizione» elaborati da Gramsci.

L’UNIVERSALITÀ “GEOGRAFICA” DI GRAMSCI

L’universalità di Gramsci, come abbiamo visto, si esprime prima di tutto nel fatto che la sua problematica teorica serve come punto di partenza necessario per i principali e più significativi tentativi contemporanei di rinnovamento della teoria política marxista. Ma, dall’altro, questa universalità ha anche una dimensione geografica: diviene sempre più evidente che i processi di “occidentalizzazione” (di “allargamento” dello Stato grazie alla creazione e alla complessificazione della società civile) tendono a estendersi nelle aree situate fuori dal cosiddetto “Nord” del mondo. Ciò rende l’universalità di Gramsci qualcosa di nazionalmente concreto per i socialisti di un numero crescente di paesi. La “ricezione” internazionale di Gramsci si è ampliata in modo crescente, a partire dagli anni ’60, nei paesi già pienamente “occidentalizzati”. Benché tardivamente (un ritardo che si deve, in primo luogo, alla persistenza del dogmatismo “marxista- leninista”), l’opera di Gramsci penetrò con grande intensità nella maggioranza di questi paesi, dalla Francia alla Germania, dagli Stati Uniti al Giappone54. Ma va sottolineato il fatto che questa universalità “geografica” di Gramsci non vale solo per il “Nord” del mondo, bensì coinvolge anche ampie regioni del cosiddetto “Sud”, in particolare l’America Latina. Quest’area fu, con la naturale eccezione dell’Italia, la prima ad entrare in contatto più stretto con l’opera di Gramsci55. E ciò che è forse più importante: la presenza di Gramsci si fa sentire in molte delle più lucide analisi sulle realtà di questo continente fatte dagli stessi pensatori latino-americani. Gramsci è oggi, senza dubbio, uno degli autori stranieri più letto e influente in quello che il cubano José Martí chiamava Nuestra América.

Se vogliamo individuare le ragioni della forte presenza di Gramsci nel pensiero politico latino-americano – il che risulta senz’altro dalla sua capacità di aiutarci a capire i nostri problemi di ieri e di oggi –, sarà più utile ricorrere a due complessi problematici che sono centrali nella sua opera, ossia la copia categoriale «Occidente»/«Oriente» e il concetto di «rivoluzione passiva». In effetti, abbiamo oggi nel “Sud” del mondo paesi “orientali” e “occidentali”. Questa differenza ci obbliga a una analisi concreta e differenziata di ogni singola regione del Sud, se vogliamo effettivamente capire le società “meridionali” alla luce della lezione gramsciana. Basta pensare alla diversissima situazione che contrassegna oggi, per esempio, gran parte dell’America Latina, da un lato, e, dall’altro, l’Africa o il mondo arabo. Altresì, non sono stati pochi i paesi del Sud che hanno vissuto – nel loro passaggio alla “modernità” – processi di transizione dall’alto, che Gramsci non esiterebbe a individuare come «rivoluzioni passive». Purtroppo, non posso qui che ricordare, neiconfronti dell’attualità del concetto di «rivoluzione passiva» nel Sud del mondo, il fatto che non sono pochi gli autori latinoamericani che si sono valsi e ancora si valgono di questo concetto nelle loro analisi della dinamica sociale del Continente latinoamericano. Secondo questi autori, sarebbero manifestazioni di «rivoluzione passiva» eventi importanti per la storia di questa parte del mondo come, ad esempio, il consolidamento autoritario della rivoluzione messicana, la cosiddetta Rivoluzione del 1930 in Brasile, le varie forme di populismo (dal varguismo brasiliano al peronismo argentino), così come le recenti dittature di cui ci si è faticosamente liberati negli anni ‘80. Non posso dilungarmi qui sulla questione, ma credo che sarebbe anche di grande fecondità concepire il modo nel quale il Sud del mondo, compresa la Nuestra América, si stia inserendo negli odierni processi di globalizzazione alla stregua di un concetto aggiornato di «rivoluzione passiva»56.

Ci sono dunque ragioni specifiche per le quali Gramsci è diventato un maître à penser anche in America Latina. Sono molti quelli che lo considerano il teorico della rivoluzione in Occidente. Ebbene, se tutti i paesi cosiddetti “arretrati” – quelli cioè che formano i Sud del pianeta – dovessero essere considerati “orientali” (come sembra che lo stesso Gramsci credesse ancora nel 1932),57 allora l’universalità del nostro autore resterebbe ancora parziale, ristretta soltanto ai paesi del Nord sviluppato. Ma il fatto invece è che l’universalità di Gramsci ha una natura fortemente espansiva. In effetti, come si è visto nel sesto capitolo, i concetti di “Oriente” e “Occidente” non sono per lui concetti statici, soltanto sincronici: Gramsci si rende conto che il rafforzamentodella “società civile”, il sorgere cioè di una struttura sociale e statale più complessa, è un processo storico, diacronico, che si sviluppa dunque nel tempo. Ciò significa che singoli paesi o regioni, che in un primo momento presentavano forme sociali piuttosto “orientali”, possono svilupparsi nel senso di divenire “occidentali”.

In questo senso, possiamo dire che il Sud del mondo – purrimanendo complessivamente “arretrato” nei riguardi del “Nord” e da esso globalmente sfruttato – si divide oggi tra Oriente e Occidente: non abbiamo “il” Sud, ma “i” Sud del mondo. Si può così parlare dell’emergere di un Occidente “periferico” o “tardivo”58. Penso che Gramsci considerasse questo, negli anni ‘30, il caso di paesi come Spagna, Grecia e addirittura Italia. Ebbene, non sarà difficile dimostrare che i principali paesi dell’America Latina costituiscono oggi esempi emblematici di “Occidente periferico”. Dunque questa espansione dell’Occidente - già prevista per via teorica da Gramsci – fa sì che la universalità dell’autore dei Quaderni diventi qualcosa di nacionalmente concreto per i socialisti di un numero sempre crescente di paesi.

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33. Due antologie registrano l’influsso universale di Gramsci: Gramsci nel mondo, a cura di Maria Luisa RIGHI, Roma, 1995; e Gramsci in Europa e in America, a cura di Antonio A. Santucci, Bari-Roma.        [ Links ]

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Notas

1  GRAMSCI, A (1975): Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, p. 1558.

2  Una capacità di rinnovamento maggiore è presente nelle formulazioni di TOGLIATTI del “partito nuovo”, presentate – già a partire dal 1944 – in stretta relazione con il suo concetto di “democrazia progressiva”. Però, malgrado tale innovazione, Togliatti ha sempre insistito, aldilà del giusto, sulla continuità tra GRAMSCI e LENIN. (Cfr., ad esempio, P. TOGLIATTI (1958): Il leninismo nel pensiero e nell’azione di A. Gramsci e Gramsci e il leninismo, entrambi del 1958, ora in Id., Scritti su Gramsci, a cura di G. LIGUORI, Roma, Editori Riuniti, 2001, pp. 213- 262). Sono pienamente d’accordo con Guido LIGUOR quando, nell’Introduzione a questa raccolta da lui stesso curata (ibid., p. 26), afferma che nella visione togliattiana «restavano in ombra proprio le peculiarità che impedivano di rinchiudere Gramsci nell’ambito di un orizzonte puramente leninista, poiché egli non è “una variante” del leninismo, ma l’autore di una teoria e di una strategia senza dubbio collegate storicamente a quelle del leader bolscevico, ma anche autonomamente significative». Questa autonomia è molto più marcata in relazione alla teorie dello Stato e della rivoluzione che non a quella del partito.

3  LENIN, VI (1969): Che fare?, Roma, Editori Riuniti, pp. 61-136.

Quaderni, Op. cit., p. 920. “Sulla concezione gramsciana di catarsi”.

Ibid., p. 1522. 

Ibidem

7  Questa caratteristica fondamentale del partito comunista, del resto, era già stata indicata da MARX ed ENGELS: «I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni del proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo» (K. MARX, F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, in Id., Opere, Roma, Editori Riuniti, vol. VI, 1973, p. 498). 

8  Non c’è ancora in Gramsci, almeno esplicitamente, l’idea che questa mediazione possa essere realizzata da più di un partito; è un’idea che prenderà corpo solo nell’elaborazione teorica dei suoi eredi, in particolare nelle teorie togliattiane della “democrazia progressiva” e del “partito nuovo”.

9  Per le relazioni tra GRAMSCI e SOREL, cfr. BADALONI, N (1975): Il marxismo di Gramsci, Torino, Einaudi.

10  Quaderni, Op. cit., p. 1485. Il corsivo è mio. Del resto, Gramsci parla chiaramente del «carattere “astratto” della concezione soreliana del “mito”»; e, sebbene riconosca che «una volontà collettiva [...] almeno per alcuni aspetti [è] creazione ex novo, originale», essa deve risultare da una «coscienza operosa della necesita storica» (Ibid., p. 1559). 

11  Ibidem.

12  Ibid., pp.328-332 

13  Ibid., p. 330. Il secondo corsivo è mio.

14  Ibid., p. 1560. 

15  «La filosofia della praxis presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la Rivoluzione francese, il calvinismo e la economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura» (Ibid., p. 1860).

16  Ibid., p. 1523.

17  TOGLIATTI, P (1978): Il leninismo nel pensiero e nell’azione di Gramsci, p. 230.

18  PIOTTE JM (1970): La pensée politique de Gramsci, Paris, Anthropos, p. 71. Rimando per il tema del partito ai saggi contenuti in Gramsci: il partito politico nei Quaderni, a cura di S. MASTELLONE e G. SOLA, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2001.

19  Quaderni. Op. cit., p. 1513. Pertanto, è un errore grossolano – purtroppo molto comune tra coloro che conoscono Gramsci di seconda mano – identificare «intellettuale organico» con «rivoluzionario» e «intellettuale tradizionale» con «conservatore» o «reazionario». La borghesia ha i suoi intellettuali «organici», così come ci sono degli intellettuali «tradizionali» (per esempio, uomini di chiesa e insegnanti) legati alle lotte delle classi subalterne. 

20  GRAMSCI, A (1975) ): Alcuni temi della quistione meridionale, p. 152.

21  Quaderni, Op. cit., p. 1940.

22  Ibid., p. 1939.

22  Ibid., p. 1939.

23  Se gli intellettuali assumono spesso la funzione del partito politico, si può dire, reciprocamente, che il partito moderno, quando nasce, diviene per Gramsci uno dei principali strumenti di formazione di intellettuali organici: «È da porre in rilievo l’importanza e il significato che hanno, nel mondo moderno, i partiti politici nell’elaborazione e diffusione delle concezioni del mondo [...]. Perciò si può dire che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità integrali e totalitarie» (Ibid., p. 1387). 

24  Ibid., p. 1733. Bisogna avvertire che Gramsci, al contrario della “teoria dell’élite” di Mosca e Pareto, contro la quale polemizza esplicitamente, non concepisce questa differenza tra i tre “elementi” come una divisione “eterna” tra individui superiori e inferiori. Egli non solo prevede una grande mobilità interna al partito, ma – a lungo andare, come abbiamo visto – crede che sia compito del partito rivoluzionario eliminare la propria differenza tra governanti e governati nella «società regolata», cioè nel processo di assorbimento dello Stato nelle organizzazioni della società civile. 

25  Ibid., pp. 1733-1734.

26  Ibid., p. 1692.

27  Ibidem.

28  Sui processi involutivi e degenerativi subiti dal PCUS sotto la dittatura di Stalin, cfr. l’eccellente libro di Giuliano PROCCACCI (1975): Il partito nell’Unione Sovietica 1917-1945, Bari, Laterza, soprattutto pp. 101-169.

29  Questa accusa strumentale era molto diffusa negli anni settanta, al tempo dell’avanzata del Pci sulla scena politica italiana; cfr. ad esempio Luciano PELLICANI (1976): Gramsci e la questione comunista, Firenze, Vallecchi, soprattutto pp. 55 e ss.; e Massimo L. SALVATORI (1978): Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia e Gramsci e l’eurocomunismo, entrambi in Id., Eurocomunismo e socialismo sovietico, Torino, Einaudi, pp. 13-38 e 39-59. Oggi si preferisce dire invece che il “povero” Gramsci è stato vittima del “totalitarismo” del suo partito e dell’Urss, sotto diretta responsabilità dello “stalinista” Togliatti. Un grossolano esempio di questa posizione ugualmente strumentale e senza fondamento è in Massimo CAPRARA (2001): Gramsci e i suoi carcerieri, Milano, Edizioni Ares; una versione più sofisticata è in Aldo NATOLI (1990): Antigone e il prigioniero, Roma, Editori Riuniti.

30  Quaderni, Op. cit., p. 1732.

31  Cfr. REGIDOR, JR (1989): Presenza di Gramsci nella teologia della liberazione, in IG Informazioni, Roma, Fondazione Istituto Gramsci, nº. 4, pp.75-89.

32  In questo senso, si deve consultare su Internet la splendida bibliografía gramsciana, compilata e organizzata da John M. CAMMETTE con la collaborazione di Maria Luisa RIGHI e Francesco GIASI, che registra più di 15mila titoli sul nostro autore, scritti da intellettuali di diversi campi del sapere e di svariati indirizziteorico-ideologici, circa la metà dei quali in lingue diverse dall’italiano. Questa bibliografia, aggiornata periodicamente, può essere consultata in: www.gramsci.it. In versione cartacea, parte sostanziale di questo lavoro si trova in John M. CAMMETTE (1991): Bibliografia gramsciana 1922-1988, Roma, Editori Riuniti; e John M. CAMMETTE e Maria Luisa RIGHI (1995): Bibliografia gramsciana. Supplement updated to 1993, Roma, Fondazione Istituto Gramsci.

33  GERRATANA, V (1997): Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti.

34  Sono ad esempio insostenibili, alla luce della lettera dei testi gramsciani, le seguenti affermazioni: «[Gramsci] inizia a cogliere la mutazione dei soggetti fondamentali della storia e la necessità di abbandonare lo schema leniniano classe-organizzazione-rivoluzione, ormai inadeguato in una realtà mondiale segnata non dalle difficoltà che la rivoluzione eventualmente incontrerebbe, ma dalla sua inattualità (se non inutilità), ponendosi ormai il problema del gobernó dell’economia di mercato, ovvero: del governo dei modi di penetrazione e di diffusione della forma-merce in sempre nuovi settori e territori, e non certo quello del suo superamento-annullamento. [...] Il “moderno Principe” [...] è un organismo funzionale alla formazione e alla crescita di una società poliarchica» (M. MONTANANI (1997): Introduzione a A. Gramsci. Pensare la democrazia. Antologia daí “Quaderni del carcere”, Torino, Einaudi, pp. XI e XXXVII; il corsivo è mio). Le stesse posizioni tornano in Id., Studi su Gramsci. Americanismo democracia e teoria della storia nei Quaderni del Carcere, Lecce, Pensamultimidia, 2002, p. 119-120: «È, così, superata da Gramsci ogni immagine del presente come fase ultima (o senile) del capitalismo [...]. Viene, invece, definita una visione della “rivoluzione” (termine che, a questo punto, appare inadeguato, se non inutile) come processo costitutivo di una nuova Soggetività. È superata ogni idea di “transizione al socialismo” fondata sulla logica del prima-poi». L’alternativa gramsciana alla “transizione al socialismo” – e mi pare che non sia possibile pensare qualsiasi transizione se non in termini di prima-poi – sarebbe «l’americanismo, in quanto strategia politica-economica fondata sull’idea della crescita dei consumi e dell’ampliamento della cittadinanza» Ibid., pp. 117-118).

35  Quaderni. Op.cit., p. 764.

36  Ibidem.

37  Cfr. HBERMAS J (1981: Teoria dell’agire communicativo, Bologna, Il Mulino. Per il lettore interessato ad un primo approccio al pensiero habermasiano,suggerisco la lettura di Stefano PETRUCCIANI (2000): Introduzione a Habermas, Bari-Roma, Laterza. 

38  SCHUMPETER, JA (1997): Capitalismo socialismo democrazia, Milano, Etas Libri. Sullo svuotamento (teorico e pratico) del concetto di democrazia nel liberalismo, cfr. l’eccellente libro di Domenico LOSURDO (1993). Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Torino, Bollati Boringhieri.

39  FRIEDRICH, E (1969): “Introduzione alla prima ristampa di «Le lotte di classe in Francia» [1895]”, in: MARK, K & ENGELS, F (1969): Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, p. 128. I corsivi sono miei.

40  Cfr., per esempio, la nota su Hegel e l’associazionismo, in: Quaderni, Op. cit., pp. 56-57, nella quale inizia la riflessione che porterà in seguito GRAMSCI a elaborare il suo concetto di «società civile».

41  ROUSSEAU, JJ (1973): Il contratto sociale, Torino, Einaudi, p. 42.

42  Cfr. MARX, K (1974): La questione ebraica, Roma, Riuniti, pp. 45-88.

43  HEGEL, G.W.F (1971): Lineamenti di filosofia del diritto. Bari, Laterza, p. 258, 214.

44  Si può dire che le “corporazioni” hegeliane diventano in Gramsci, in un modo più realistico e moderno, gli «apparati “privati” di egemonia». 

45  Quaderni. Op. cit., p. 1244. 

46  Questo riconoscimento, certamente, non giustifica l’unilateralità opposta, propria di alcuni interpreti, che consiste nel negare il momento di continuitàconservazione tra Gramsci e Lenin.

47  Per l’analisi delle relazioni tra TOGLIATTI e GRAMSCI, cfr., tra altri, i libri, vecchi ma ancora validi, di Giuseppe VACCA (1974): Saggio su Togliatti e la tradizione comunista, Bari, De Donato, e di Nicola AUCIELLO (1974): Socialismo ed egemonia in Gramsci e Togliatti, Bari, De Donato. La grande maggioranza delle opere più recenti su questo argomento, scritte in generale all’insegna del “revisionismo”, che fanno di Togliatti un inflessibile stalinista e un persecutore di Gramsci, non hanno nessun valore teorico né storiografico. Due importanti eccezioni sono costituite dal libro di M. PISTILLO (1996): Gramsci-Togliatti. Polemiche e dissensi nel 1926, Lecce-Manduria, Laicata; e dall’introduzione di Giuseppe VACCA a Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, a cura di Chiara DANIELE, Torino, Einaudi, 1999, pp. 1-149.

48  Le posizioni di INGRAO sono presentate, soprattutto, nei suoi libri Masse e potere; Crisi e terza via, Roma, Editori Riuniti, 1978; e Tradizione e progetto, Bari, De Donato, 1982.

49  Dico “forse” perché, sebbene in un modo non sistematico, questa idea dell’articolazione tra consigli e parlamento, cioè tra democrazia di base e democracia rappresentativa, appare già negli anni ’20 in uno dei principali teorici dell’“austromarxismo”. Cfr. in particolare Max ADLER (1970): Democrazia e consigli operai, Bari, Laterza.

50  POULANTZAS, N (1980): Il potere nella società contemporánea. p. 170. Cfr. anche le interviste di Poulantzas raccolte nel libro postumo Repères.Textes sur l’état, Parigi, Maspero, pp. 109-183.

51  Quaderni, Op. cit., p. 1584. Non è un caso che questa frase di Gramsci compaia nella nota intitolata appunto Analisi delle situazioni: rapporti di forza.

52  POULANTZAS, N (1980): Op. cit., p. 341.

53  Ibid., p. 342. Non mi pare che Gramsci concepisca la guerra di posizioni solo come “un accerchiamento dello Stato roccaforte”; ma questo probabile errore di interpretazione di Poulantzas non annulla la novità della sua formulazione.

54  Due antologie registrano l’influsso universale di Gramsci: Gramsci nel mondo, a cura di Maria Luisa RIGHI, Roma, Fondazione Istituto Gramsci, 1995; e Gramsci in Europa e in America, a cura di Antonio A. SANTUCCI, Bari-Roma, Laterza 1995. In queste raccolte si possono trovare saggi sulla ricezione di Gramsci nell’America Latina di lingua spagnola (José ARICÓ, Osvaldo FERNÁNDEZ DÍAZ), in Brasile (C. N. COUTINHO), Cina (Tian SHIGANG), Danimarca (Gert SORENSEN), Francia (André TOSEL, Georges LABICA), Giappone (Eisuke TAKEMURA), Germania, (Gisela WENZEL, Wolfgang FRITZ HAUG, Theodor PIMKUS, Michael GRABEK), Grecia (Jannis VOULGARIS), Inghilterra (David FORGACS), Messico (Dora KANOUSSI), mondo arabo (Tahar LABIB), Russia (Irina GRIGOR´EVA), Spagna (Francisco FERNÁNDEZ BUEY), Stati Uniti (Joseph A. BUTTIGIEG, Franz ROSENGARTE) e Sudáfrica (Karl VON HOLDT).

55  Già nel 1950, cioè soltanto tre anni dopo l’edizione italiana, una casa editrice di Buenos Aires, la Lautaro, legata ai comunisti argentini, pubblicò una traduzione spagnola delle Lettere dal carcere; tra il 1958 e il 1964, la stessa casa editrice mise a disposizione del lettore di lingua spagnola quasi tutti i volumi dei Quaderni nell’edizione tematica di Togliatti e Felice Platone. In Brasile, la pubblicazione in portoghese di quattro volumi di questa stessa edizione, così come di un’antologia dell’edizione Caprioglio-Fubini delle Lettere (1965), ebbe luogo tra il 1966 e il 1968. Negli anni successivi e fino ai nostri giorni, le edizioni e riedizioni di Gramsci si sono moltiplicate in America Latina. Ci sono oggi traduzioni sia in portoghese che in spagnolo – significativamente pubblicate non in Portogallo o in Spagna, ma rispettivamente in Brasile e in Messico – dell’edizione critica dei Quaderni, completate, come ulteriore conferma della permanenza dell’interesse per Gramsci, in questo inizio del secolo XXI.

56  En passant, sempre per ribadire l’universalità del nostro autore, è da ricordare che si è creata tutta una “scuola neogramsciana” di analisi dei rapporti internazionali, influente soprattuto nel mondo anglosassone. Su questo, cfr.Gramsci, Historical Materialism and International Relations, a cura di Stephen GILL, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, che contiene contributi di S. GiILL, Robert COX, Mark RUPERT, Giovanni ARRIGHI e altri.

57  In effetti, dopo aver dimostrato che nei paesi sviluppati (che lui chiama «moderni») la strategia della «guerra di movimento» (adeguata ai paesi “orientali”) era ormai superata, cedendo il posto alla guerra di posizione (propria dei paesi “occidentali”), Gramsci generalizza: «La quistione si pone per gli Stati moderni, non per i paesi arretrati e per le colonie, dove vigono ancora le forme che altrove sono superate e divenute anacronistiche» (Quaderni, Op. cit., p. 1567).